Nonostante si sia detto tanto sul tema scandaloso del gender pay gap, c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire. Questa volta l’occasione arriva da un report messo a punto da Linklaters Italia, studio legale internazionale best in class sui temi dell’inclusione. Un lavoro che si distingue per un approccio multidisciplinare, volto a indagare il fenomeno nelle sue diverse dimensioni, da quella individuale e familiare, a quella collettiva sociale, oltre, naturalmente, a quella economica in una prospettiva di lungo periodo. La stessa modalità di lavoro che hanno stanno seguendo i centri di ricerca più avanzati, come ad esempio Minerva-Laboratorio su Diversità e disuguaglianze di genere, nato quasi due anni fa presso il Dipartimento di Scienze Statistiche dell’università Sapienza di Roma, che – sull’onda del #Metoo Movement – ha misurato l’impatto dell’incombere delle molestie sessuali al lavoro sul divario retributivo. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Il report in oggetto fa il punto sui costi e sui mancati guadagni del fenomeno e dalla conversazione con le due curatrici, le avvocatesse Federica Barbero e Angela Bruno, rispettivamente Employment & Incentives Practice Head ed Employment & Incentives Managing Associate di Linklaters Italia, ci si fa un quadro piuttosto allarmante. Partendo dalla dimensione individuale – mi raccontano – che, grazie a una ricerca recentemente condotta dalla startup Sòno, sappiamo che il 67% delle donne si dice insoddisfatta del proprio lavoro in ragione della mancanza – a parità di livello di istruzione e di mansioni – di analoga parità salariale rispetto al proprio collega. E ne hanno ben donde, dal momento che secondo il Rapporto Oxfam, nei 28 Paesi europei, nel 2017 le donne hanno guadagnato in media il 16% in meno rispetto ai propri colleghi, ovvero hanno lavorato per due mesi senza essere retribuite. In Italia, in base al 2018 Job Pricing Gender Pay Gap Report, nel 2017 il divario retributivo uomo-donna all’interno dei principali settori lavorativi ha oscillato tra lo 0,5% ed il 24,2%. Quindi, una lavoratrice italiana, a seconda dell’inquadramento lavorativo di appartenenza, ha guadagnato in media tra i 9.000 euro ed i 2.500 euro in meno all’anno rispetto al proprio collega. Non proprio bruscolini.
Gli effetti nel breve periodo si manifestano in performance meno brillanti da parte delle lavoratrici, a danno della persona e dell’intera organizzazione, ma le conseguenze sul lungo periodo sono, forse ancora più gravi, perché si concretizzano in un reddito pensionistico inferiore rispetto a quello percepito dai colleghi maschi, a causa della minore contribuzione versata nel corso del suo rapporto di lavoro. Se passiamo poi ad analizzare il fenomeno nella dimensione economico-sociale, allora diventa chiaro quanto il gender pay gap sia un problema per tutti. Il report – continuano le avvocatesse – evidenzia che ad un salario più basso corrisponde un minore potere di acquisto e, dunque, un minore consumo da parte delle lavoratrici. L’aspetto squisitamente sociale, poi, è legato alla perdita di fiducia e di attrattività di un ambiente lavorativo, come di un intero paese, connotato da una disuguaglianza evidente e quindi percepito collettivamente come non equo.
Tutto ciò ha un costo cospicuo per i singoli Paesi a cui non si deve dimenticare di aggiungere un significativo mancato guadagno nel lungo periodo. Tra i tanti studi al riguardo, giova ricordare quello della World Group Bank del 2018, da cui si evince che per effetto del divario retributivo, Nord America ed Europa hanno perdite intorno ai 40-50 miliardi di dollari. E quello dell’Institute for Women relativamente alle imprese US, secondo cui il superamento del pay gap ridurrebbe il tasso di povertà femminile della metà, con un conseguente aumento delle entrate fiscali pari a circa 512.6 miliardi di dollari. La stessa cosa vale, sebbene con dati diversi, in Italia. Il vero problema – evidenzia il report – è che il nostro Paese, come dimostra il Gender Pay Gap Index messo a punto dal World Economic Forum, è quello che sta meno intervenendo sulle cause del fenomeno, posizionandosi nel 2017 al 118esimo posto su 142 paesi nel mondo per accesso al mercato del lavoro, retribuzione e avanzamento di carriera della donna.
Le cause, oramai, sono più che note: un “sovraffollamento” della categoria maschile in posizioni lavorative apicali e, di contro, un “sovraffollamento” della categoria femminile in alcuni settori meno retribuiti. A ciò si aggiungere lo svolgimento di compiti non retribuiti da parte delle donne, quali la cura dei figli o dei lavori di casa, circa 22 ore a settimana, a fronte di 9 ore settimanali da parte degli uomini. Inoltre, le donne hanno carriere più discontinue, segnate da significativi periodi di interruzione durante e, molto spesso, anche successivamente al periodo di maternità, dal quale – se tornano – optano spesso per una riduzione dell’orario lavorativo. E altrettanto note sono le policy che andrebbero adottate per equilibrare la situazione, ma poche e discontinue iniziative sono state prese dalla politica, non sortendo, di fatto, alcune effetto.
Del resto, Barbero e Bruno mettono in guardia da facili soluzioni. Le leggi servono, eccome, ma non sono comunque sufficienti. Lo dimostrano Paesi ben più evoluti del nostro. E’ il caso, ad esempio, di UK, Islanda, Svezia e, più recentemente, Germania e Francia, dove, pur essendo in vigore una legislazione ad hoc che impone alle aziende la parità di salario, le donne continuano ad essere discriminate sul piano retributivo, come riporta anche il recente Report on equality between women and men in EU 2019. La differenza può farla davvero una scelta consapevole delle aziende, che si impegnano nel perseguire, giorno dopo giorno, policy tese alla gender equality e all’inclusion. Il come, anche in ambito corporate, ormai, si sa. Non ci si può più nascondere dietro a facili giustificazioni. E’ solo questione di volontà e di capacità di esprimere una leadership e un management autentici e responsabili, innanzitutto attraverso l’esempio e, quindi, i comportamenti. Il report suggerisce di sensibilizzare tutta la popolazione aziendale attraverso specifici e periodici incontri sui progressi sul fronte della gender equality e sullo stato di avanzamento della policy aziendale e dei relativi risultati, o la creazione di blog, newsletter ed eventi di team building.
Di casi eccellenti a cui guardare, sia in Italia sia all’estero, non ne mancano. Uno su tutti, proprio Linklaters, le cui strategie generali e attività quotidiane sono permeate da una chiara volontà di far parte di uno studio legale “best in class” per diversity & Inclusion, come dimostrano numerosi riconoscimenti, tra i quali la nomination come “Times’ Top 50 employers for women for the fifth year running in 2018”. E forse proprio aziende come queste possono imprimere un cambiamento nella coscienza collettiva da parte delle donne e dell’intera società.
Non si dimentichi che il movimento #Metoo ha segnato una svolta nella storia dell’affermazione dei diritti delle donne, che grazie ai social media e, in particolare, alla campagna lanciata su Twitter ha toccato tutto il globo. Ma l’intensità, gli effetti e le connessioni sollevate sono state diverse di Paese in Paese. Ne ha fatto oggetto di ricerca proprio il laboratorio Minerva della Sapienza, che tra poche settimane presenterà a Bruxelles un lavoro importante, con il contributo di studiosi di tutta Europa, da cui partire per avviare una nuova Agenda per la gender parity. Sapete cosa emerge? Nei Paesi nordici, il movimento #Metoo ha innescato azioni collettive di pressione sui policy makers, in Italia si è ridotto a casi individuali, depotenziandone la forza dirompente che avrebbe potuto avere. Forse, dovremmo ripartire proprio da lì, dalla costruzione di una coscienza comune in grado di difenderci da facili strumentalizzazioni che ci rendono deboli e impotenti.