Perché ora le aziende decidono di trascurare gli azionisti

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Alcune cose serve ripeterle. Perciò, se qualche passaggio del nuovo Manifesto dell’associazione americana Business Roundtable sulla ragion d’essere di un’azienda vi suona familiare (perché lo avete già letto nei libri universitari qualche decade fa), non lasciate che questo sgonfi l’entusiasmo per una tendenza in corso negli Stati Uniti, patria regina del capitalismo, culminata questa settimana proprio nel testo firmato da 181 amministratori delegati delle principali aziende.

Fino al giorno prima di questo manifesto – e negli ultimi 22 anni – i ceo hanno infatti venerato un solo dio, l’azionista, e i benefici per tutti gli altri stakeholder sono stati residuali. Profeta di questo monoteismo fu Milton Friedman, e uso il passato remoto perché è stato nel remoto 1970 che ha detto, in un famoso articolo per il New York Times:

“Le aziende hanno una e una sola responsabilità: intraprendere attività che ne massimizzino i profitti”.

Se avete l’impressione che le cose siamo leggermente cambiate nell’economia degli ultimi 50 anni, sappiate però che non è cambiata la direzione delle aziende, rimasta quella dettata allora dall’economista Premio Nobel. E infatti nel 1997, quasi 30 anni più tardi, il manifesto della Business Roundtable sullo scopo delle aziende recitava:

“Il dovere principale dei manager e dei cda è verso gli azionisti. L’interesse di tutti gli altri stakeholder è rilevante in quanto conseguenza del dovere verso gli azionisti”.

f0743600-cfa2-4185-b99e-0f85bf676179Il capitalismo però non ha mantenuto tutte le sue promesse. Si pensava che, aumentando la ricchezza generale, saremmo stati tutti meglio. E non è stato così.
Il divario ricchi poveri è aumentato e anche la classe media occidentale vede aumentare la distanza tra ciò che vorrebbe e ciò che può: ciò che è disponibile e ciò che è accessibile. Non sorprende visto che, secondo l‘analisi di Equilar, una società che si occupa di consulenza sul mondo retributivo, il rapporto tra la paga di un amministratore delegato e i dipendenti è oggi in media di 254 a 1. L’etica di Friedman è rispettata: i profitti crescono, il valore (per gli azionisti) cresce, ma non avviene nessuna redistribuzione “automatica” e – data la direzione presa dai governi – anche le redistribuzioni mosse dal meccanismo pubblico zoppicano ovunque.

Composto da 300 parole, il nuovo manifesto dei ceo americani cita gli azionisti solo alla 250esima. Prima, in modo essenziale ma ampio, recupera tutti gli altri: gli stakeholder che negli ultimi decenni erano scivolati dal piano strategico a quello della Corporate Social Responsibility.

Ovvero dall’essere fattori competitivi all’essere un “nice to have” di cui occuparsi solo dopo aver “saziato” gli azionisti.

Vale la pena tradurlo tutto o quasi. Provando a leggere queste affermazioni senza l’occhio cinico di chi le ha già lette troppe volte, ma come una svolta decisa, che non è solo di facciata. Che i ceo americani si siano finalmente ricordati che: “i business non possono avere successo se la società fallisce”?

Per rendere più appassionante la lettura, immaginiamo che questo manifesto parli degli Italiani.

Manifesto sullo scopo di un’azienda

Gli Italiani hanno diritto a un’economia che permetta a ogni persona di avere successo attraverso il duro lavoro e la creatività, e di condurre una vita di significato e dignità.

Noi (i ceo) crediamo (ancora) che un sistema di libero mercato sia il mezzo più efficace per generare lavoro, un’economia forte e sostenibile, innovazione, un ambiente sano e opportunità economiche per tutti.

Le aziende giocano un ruolo vitale nell’economia poiché creano posti di lavoro, alimentano l’innovazione e forniscono beni e servizi essenziali. (…) Mentre ognuna delle nostre aziende serve individualmente il proprio obiettivo aziendale, noi condividiamo un impegno fondamentale verso tutti i nostri stakeholder (portatori di interessi).

Ci impegniamo a:

  1. Portare valore ai nostri clienti. Proseguiremo nella tradizione delle aziende italiane di essere tra le prime al mondo nella soddisfazione e nel superamento delle aspettative dei nostri clienti.
  2. Investire nei nostri dipendenti. Iniziando col retribuirli in modo equo e dare loro benefit importanti. Ma anche supportandoli attraverso formazione ed educazione che li aiutino a sviluppare le competenze necessarie in un mondo che cambia rapidamente. Promuoviamo la diversità e l’inclusione, la dignità e il rispetto.
  3. Rapportarci in modo corretto ed etico con i nostri fornitori. Siamo dediti a comportarci come buoni partner per altre aziende, grandi e piccole, che ci aiutano a raggiungere la nostra missione.
  4. Supportare le comunità in cui lavoriamo. Rispettiamo le persone nelle nostre comunità e proteggiamo l’ambiente attraverso l’adozione di pratiche sostenibili in tutti i nostri business.
  5. Generare valore a lungo termine per i nostri azionisti, che forniscono il capitale che permette alle aziende di investire, crescere e innovare. Ci impegniamo alla trasparenza e all’ingaggio reale con gli azionisti.
  6. Ognuno dei nostri stakeholder è essenziale. Ci impegniamo a generare valore per ognuno di loro, per il successo futuro delle nostre aziende, delle nostre comunità e del nostro Paese.

E occhio che tutto il manifesto ha i verbi declinati al presente, non a un (ipotetico) futuro. Buon lavoro amministratori delegati, il mondo ha bisogno di voi!

  • Mario |

    Di questi argomenti se ne parla ormai da anni; ormai qualcosa è diffuso in tutte le aziende, se non altro per non fare “brutte figure” di fronte al proprio ambiente e di fronte ai propri portatori d’interesse (di cui vengono citate alcune categorie). Credo che la vera sfida sia diventata il coninvolgere queste forze attorno ad uno scopo, soluzione ad un problema, progetto, visione a lungo termine che l’azienda si dà o che le viene imposta. Vediamo esempi in questo nei grandi gruppi dell’economia digitale, che per anni hanno sofferto perdite, nel settore auto con grandi unioni interno a progetti futuri. Pure nel settore bancario vediamo qualcosa di simile. Senza questo, ho il dubbio che possa venire preso a pretesto per trasformarsi in un “too big to fail”.
    Effettivamente, comunque, si stà andando verso un economia “sociale” e “responsabile”, molto simile a quella a cui noi siamo abituati a vedere qui in Europa.

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