“Lontano da casa” è la traduzione italiana di “Loin de chez moi, mais jusqu’où?” Il libro è uscito in Francia da pochi mesi e porta la firma di Pinar Selek, nel nostro Paese è edito da Fandango. L’autrice è una delle più attive intellettuali della Turchia dei giorni nostri, già nota per “La casa sul Bosforo“, romanzo uscito nel 2013 e definito, per sua stessa ammissione, scrittura che guarisce.
Una famiglia di sinistra, il padre imprigionato dopo il colpo di Stato del 1980, ricordato da molti come l’evento «che aveva aperto la strada al massacro intellettuale, paralizzando psicologicamente un’intera generazione con torture e atrocità». Ma Pinar è tra quei giovani e cerca risposte, sollecita domande. Sociologa, fervente antimilitarista, tra le fondatrici del collettivo femminista Amargi – termine che a cercarlo significa libertà o ritorno alla madre – l’intellettuale vive oggi in Francia, in un esilio che ha inizio nel 2009.
Pinar Selek è una delle tante donne e dei tanti uomini ad aver pagato con la tortura il coraggio e la lucidità di raccontare gli oppressi. La denuncia di un sistema che soffoca qualsiasi forma di libertà e di autodeterminazione le è già costata due anni e mezzo di prigione, di prostrazione fisica e psicologica. Come Nazim Hikmet, il poeta, che in più di un’intervista la scrittrice cita con forza. Raggiunta in carcere da una falsa accusa di terrorismo, il regime non le perdona sopra ogni cosa i contatti e le inchieste sui curdi del Pkk. Una persecuzione giudiziaria lunga oltre venti anni. È stata condannata all’ergastolo, quattro volte assolta, è oggi in attesa della decisione definitiva della Corte Suprema.
A Roma dal 2011 esiste un comitato di sostegno legato alle moltissime iniziative che negli anni si sono moltiplicate in sua difesa; si sono schierati al suo fianco, tra gli altri, anche gli scrittori Ohran Pamuk e Yashar Kemal.
E sono proprio le parole di quel collettivo di solidarietà a spiegare al mondo cosa sia “Lontano da casa” e chi sia Pinar. La prefazione basta a dare il senso del libro che, in fondo, raccoglie l’impegno di una vita: «È il corpo che non può sottrarsi alla battaglia politica; sono i corpi che si frappongono all’avanzata di vecchi e nuovi fascismi e modelli patriarcali e reazionari. Per questo Pinar Selek non ha mai smesso, nonostante le persecuzioni e le torture, di militare in prima persona nei movimenti politici delle città dove si ferma». Chi è Pinar Selek, allora, se non «parte integrante di quell’esercizio di traduzione continua che le persone in movimento incarnano»?
L’amore per la sua casa è l’amore per la sua terra; c’è tutta la consapevolezza però delle alte mura costruite attorno a lei, dal patriarcato prima e dal regime poi. Questo il tema che ci introduce all’opera, mentre riecheggiano nella testa le parole di una delle più intense poesie di Kavafis.
Fare esperienza della libertà si può unicamente nel tentativo estremo di deterritorializzazione, Pinar fotografa la scelta di una donna che può solo farsi rifiuto, «il rifiuto del matrimonio e del meccanismo di addomesticamento che sono i doveri quotidiani». Nelle pagine del suo libro c’è tutto il femminismo, parole chiare; ci sono le battaglie per la parità nei suoi gesti che restano semplici ma rivoluzionari e, per ciò stesso, imperdonabili: «Perché sono una donna e non volevo vivere in una di quelle case piene di mobili tutti uguali. Non volevo passare la mia vita a guardare la televisione e a portare i miei figli al parco. Volevo vivere invece, a tratti, da vagabonda, o restare sveglia fino al mattino in compagnia dei senzatetto, qua e là, questo era coerente con la mia visione della vita e con ciò che cercavo nella filosofia». Ma la libertà ha un prezzo e per le donne è anche più alto, «Poi, improvvisamente, mi hanno strappata al mio universo. Lo Stato, gli uomini che governano il mio Paese, mi hanno accusato di essere una strega».
Lo stile è asciutto, ma a tratti poetico. Il testo è quasi un diario, pur senza ricalcarne lo schema tenuto a scandirne la quotidianità. Diversamente, quelle pagine tengono conto di un tempo dilatato che segna la distanza, il tempo degli spostamenti che è anche il tempo della nostalgia. La vita, la si legge scorrere come sui binari di un treno: Pinar costretta a lasciare Istanbul, dalla sera alla mattina, con una valigia in cui riesce a riporre solo le fotografie dei suoi cari. Prima la Germania dove si sente un’estranea e poi finalmente la Francia. A Strasburgo, quindi a Lione e infine a Nizza. Qui la lingua le permette un’interazione con l’ambiente che la circonda più facile e meno traumatica. Riesce a inserirsi in un Paese che non è il suo ma di cui ottiene presto la cittadinanza. Sono pagine dense che provano a contenere tracce di un’esistenza, quella che Pinar si lascia alle spalle e quella che invece ha davanti.
È l’esperienza dell’esilio, il vagabondaggio dei rifugiati che vivono in equilibrio precario, una sensazione di disorientamento e di instabilità, a trasparire da ogni rigo. Sembra di avvertire le vertigini, muovendosi tra quei fogli. Confini e frontiere, dentro e fuori di noi.
La prima parte del libro si chiude con una speranza lucida, laica: « Niente è mai certo, tuttavia. I venti forse cambieranno direzione e le acque si calmeranno. In mare è importante saper affrontare la tempesta. Sapendo che lo spazio è infinito».
Nell’ultima parte del testo Pinar torna a parlare di sé, a dieci anni dal momento del suo allontanamento forzato. Ed è come se ricucisse uno strappo.
Alla scrittrice turca dobbiamo certamente le lotte di libertà, ma nondimeno dobbiamo l’esempio vivente di ciò che per prima sperimentò Virginia Woolf: “Come donna, non ho paese. Come donna il mio paese è il mondo intero”.
Titolo: “Lontano da casa”
Autore: Pinar Selek
Editore: Fandango Libri
Prezzo: 10 euro