Elezioni europee, l’avventura del voto degli italiani all’estero

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Ho votato di sabato, per la prima volta in vita mia e non di domenica. Mio marito ed io siamo andati al nostro seggio organizzando la giornata come fosse una gita fuori porta, con i nostri 3 figli al seguito, a un’ora di treno da casa. Lo abbiamo fatto perché è un atto democratico fondamentale ed è ancora più importante per noi perché si votava, da italiani all’estero, per quella che è una casa comune grazie alle cui regole, per esempio, possiamo vivere, lavorare e studiare in Olanda senza dover richiedere un qualche tipo di permesso speciale.

Per la prima volta però mi sono resa conto come, anche per quanto sembrino piccoli dettagli, il nostro diritto al voto non sia per forza scontato, agevolato e reso facilmente esercitabile. A me stupisce che non lo sia nel 2019.

Un iniziale senso di stupore – chiamiamolo così – si è manifestato ricevendo il certificato elettorale indirizzato al mio nome completo, ma con l’aggiunta del cognome di mio marito. Quando dopo un primo superficiale sguardo ci ho prestato davvero attenzione, il mio stupore si è tramutato in qualcosa d’altro – soprattutto per quello che rappresentano da sempre per me le questioni di parità di genere. Ho letto che qualcuno giustificava questo atto come un modo per meglio identificare i residenti all’estero (allora perché non fare lo stesso con i documenti elettorali dei mariti?). Ho letto che si tratta di una legge del 1999, poco applicata prima – ma comunque in vigore, almeno per i residenti AIRE. Ho letto e mi hanno ricordato che è così che sono registrata nelle liste elettorali in Italia. Un dettaglio, forse, ma so che non ho mai ricevuto richiesta di scelta o una comunicazione in merito e, infatti, i miei documenti riportano un solo cognome. So di estremizzare e esagero, ma potrei non essere io quella lì sul registro votanti.

Passata – o almeno contenuta – questa prima ondata di perplessità mista a rabbia, sono poi stata colpita dalla difficoltà logistica del voto stesso. Essendo in famiglia da sempre molto orgogliosi di votare, abbiamo impostato la giornata in modo da concentrare le attività solite del weekend in meno ore per andare al seggio all’Aja (un po’ più di 50 chilometri da casa), preparando i bambini e la neonata a ogni possibile evenienza, come è normale si faccia se si va in gita: pappe, pannolini, merendine e intrattenimenti vari. E via, partiti per la nostra piccolissima “avventura” – che spero resti un ricordo per i miei figli anche un po’ come lezione pratica dell’esercizio del diritto al voto. Già sulla strada per raggiungere il seggio, mi è venuto automatico pensare a tutti quegli italiani all’estero, anche tanti amici e conoscenti, che hanno o avrebbero dovuto fare ancora più strada di noi per votare, magari hanno avuto un minimo di ripensamento, un imprevisto o un impegno qualsiasi, o non hanno sentito così forte il desiderio di partecipare e hanno rinunciato a esercitare questo loro diritto anche solo per la complessità di andare alla sede predisposto dalla specifica Ambasciata.

Sto scrivendo questo pezzo a caldo, si sono appena completati gli ultimi conteggi, e anche per questo non intendo addentrarmi in commenti sulle scelte. Ma mossa pure dai risultati di affluenza, ho sentito il bisogno di registrare la macchinosità, diciamo, di votare fuori dai confini nazionali che so essere stata comune, per esempio, almeno a Bruxelles, dove c’è chi ha aspettato in coda anche 2 ore e 20, e in Germania, con seggi che potevano essere lontani 200 chilometri .

Tra le mille domande, gli scenari e i pensieri che mi si affollano in testa, senza conoscere in dettaglio le procedure organizzative necessarie, mi chiedo perché per il voto per le elezioni europee che ha scadenza regolare ogni 5 anni, ci si debba basare ancora sulla presenza fisica in un seggio invece che esprimere la propria scelta via posta, come succede agli iscritti AIRE per le altre consultazioni a cui si può partecipare dall’estero – che spesso, tra l’altro, avvengono con tempistiche meno determinate. Nel 2019 e con il numero in aumento di cittadini italiani che se ne sono andati dal bel Paese ma continuano a sentire fortissimo il legame con esso, mi sembra che ciò che si è verificato il passato fine settimana sia un esercizio di democrazia un po’ (più?) complicato. Paradossale poi se si pensa che si votava, appunto, per il Parlamento di tutti i 28 Paesi (o da fine ottobre 27, forse) dell’Unione di cui siamo altrettanto cittadini.