Si può costruire un’attività imprenditoriale che fattura circa 10 milioni di euro e dà lavoro a oltre 100 persone partendo letteralmente dal nulla, da sola e con due bambini a carico? Marie Therese Mukamitsindo, sfuggita ai massacri ruandesi alla metà degli anni Novanta, lo ha fatto.
Marie Therese ha affrontato una serie di sfide difficilissime, eppure sorprende la serenità con cui oggi, a distanza di ventitré anni, è in grado di raccontarle, quasi fosse stato naturale per lei. Parla con voce pacata e sicura. Nel 2001 ha fondato la Cooperativa Karibù, parola che nella lingua swahili vuol dire “benvenuto”. Questa importante realtà del sociale opera nel settore dell’accoglienza, integrazione, assistenza, con interventi anche in materia di rimpatrio volontario, di donne richiedenti asilo, rifugiate e beneficiarie di protezione umanitaria sussidiaria, nonché minori stranieri non accompagnati e interventi di orientamento rivolti a migranti economici. Una delle realtà più significative in Italia che abbina un progetto imprenditoriale all’inclusività. Marie Therese Mukamitsindo è la protagonista del mese di febbraio di #Unimpresa di donne.
«In Ruanda lavoravo come assistente sociale, profilo per il quale ho studiato all’università, e nonostante la guerra, decisi di restare. Poi, però, la situazione è peggiorata e si è fatta insostenibile. In un primo tempo, il mio intento era di andare in Belgio (il Ruanda è stata una colonia belga, ndr) e dopo aver attraversato il Kenya, la Tanzania e il Congo, sono arrivata prima in Italia, con l’intento di andare in Belgio, dove speravo di trovare lavoro tramite un’associazione cattolica che conoscevo.
In base all’accordo di Dublino, però, dovevo chiedere asilo nella prima nazione di approdo e così sono rimasta in Italia. Da qui è iniziato il mio percorso ed è stato durissimo. Non parlavo italiano, non potevo chiedere informazioni e non sapevo a chi rivolgermi. Ho passato i primi tempi in due case di accoglienza, avevo finito tutti i soldi. Ho sofferto molto. Poi mi sono rivolta alla Caritas di Albano, sono riuscita a riprendere i contatti con la mia famiglia che mi ha mandato dei soldi. Ho lavorato anche come badante per due anni e mezzo, però in questo periodo ho cercato di far riconoscere la mia laurea. Successivamente ho fatto un tirocinio formativo al CIR, Comitato Italiano per Rifugiati, e sono riuscita a trovare lavoro».
Come è nata la cooperativa Karibù?
«Nel 2001 è uscito un bando del Ministero dell’Interno per un programma di accoglienza dei rifugiati riservato alle donne con bambini, ho redatto un progetto e ho avuto la fortuna di vincerlo. E così sono riuscita ad aprire un centro a Sezze, in provincia di Latina. Perché ho pensato alle donne? Mentre l’uomo che scappa paga con i soldi, la donna che scappa paga con i soldi, ma anche con il suo corpo. Il 90% delle donne che scappano, spesso con bambini, subisce violenze sia nel paese d’origine che lungo la via che le porta nel paese d’accoglienza. Ne ho sentite tantissime di storie così. Nel 2004, poi, ho creato una cooperativa insieme ad altre cinque donne rifugiate con la quale gestivamo altri centri, sempre in provincia di Latina. Erano anni di boom dell’emigrazione che ci hanno fatto lavorare tanto».
Che attività avevate avviato?
«Abbiamo ricevuto tanto aiuto, sia persone comuni che titolari di attività commerciali ci hanno dato una grande mano ad avviare le attività. All’inizio abbiamo dato accoglienza a quindici donne, puntando anche al loro reinserimento professionale. Avevamo uno sportello per l’avviamento professionale, tenevamo corsi d’italiano, ci preoccupavamo di fornire anche il bilancio delle competenze. Queste donne avevano interrotto il loro percorso di vita e ne iniziavano uno completamente nuovo: era necessario metterle nelle condizioni di muoversi autonomamente nel mercato del lavoro e operare in questo contesto. Per il discorso cui ho accennato prima, bisognava anche supportarle dal punto di vista psicologico per recuperare mente e corpo».
Quali sono stati i passi successivi per il consolidamento di Karibù?
«La nostra fortuna sono sempre stati gli incontri lungo il cammino che non è stato solo fatto di difficoltà. Ad un certo punto, ci siamo potuti ampliare grazie ad un prestito che abbiamo ottenuto perché un direttore di un istituto di credito ci ha sostenuto e ha creduto in noi. Con un fido bancario di 1milione e 200mila euro, abbiamo avviato altri progetti in collaborazione con la Regione Lazio e con il Ministero della Salute, partendo dai bisogni delle persone, per la ricerca del lavoro o della casa. Abbiamo realizzato dei laboratori perché nelle attività manuali molte donne hanno potuto recuperare una dimensione di dignità personale che avevano perduto. La sa una cosa? Questi traumi tornavano nei sogni che spesso non avevano il coraggio di raccontare. Abbiamo sempre cercato di trovare un modo per stare insieme e condividere, perché ciascuna sapesse di poter contare sulle altre»
Alcune delle donne che avete aiutato sono rimaste a lavorare con voi?
«Sì alcune sono a rimaste a lavorare con noi perché erano quelle più fragili e che avevano terminato il programma. Per dare loro un’ulteriore opportunità di restare in un ambiente socuro e protetto, le abbiamo inserite come personale dipendente, in modo che potessero comunque seguire il percorso e la terapia per recuperare serenità»
E della situazione attuale che cosa pensa?
«Bisogna conoscere i bisogni individuali e trovare le risposte adeguate. In questo periodo storico, però, è necessario cambiare rotta: stiamo provando a spiegare a chi viene in Europa – e non parlo dei rifugiati – che non è facile trovare lavoro, una casa, una strada per vivere e per realizzarsi. L’Africa sta crescendo e ha bisogno di persone qualificate e formate. Stiamo creando una rete di donne africane, e di altre emigrate in Europa, in Canada e negli Stati Uniti e ci riuniremo in una conferenza internazionale ad Aprile a Rabat, in Marocco, per riflettere e trovare insieme delle soluzioni, coinvolgendo le madri alle quali raccontiamo qual è la realtà cui spesso i loro figli vanno incontro, come lo sfruttamento e la schiavitù presente ad esempio nelle campagne del foggiano (Marie Therese è stata speaker del TedXFoggia lo scorso dicembre e ne è rimasta dolorosamente impressionata, ndr), che è inaccettabile. Non possiamo tacere su questa situazione. Noi abbiamo la nostra dignità: sono italiana, ma sono anche africana e devo lavorare per la mia terra e per la mia gente. In Ruanda ero direttrice dell’area sociale della mia regione, non me ne sarei mai andata se non fosse stato per la guerra. L’idea che ho è quella di formare qui in Italia professionalità da spendere in Africa».
Quanti dipendenti avete attualmente?
«Sono 149, ma col Decreto Sicurezza sicuramente diminuiranno perché verranno meno molti servizi e di conseguenza dovrò fare a meno di molti operatori, come educatori, psicologi o insegnanti di italiano. Credo, però, che dobbiamo adattarci al momento. La debolezza non è uno status, ma una fase passeggera. Vorrei, per questo, aiutare coloro che hanno bisogno a rialzarsi, a ritrovare il sorriso, trovando un lavoro qui o imparando un mestiere per ritornare nel loro paese natale. Sempre, però, nel rispetto della dignità di ciascuno».
#Unimpresadadonne è il progetto che vede insieme AlleyOop, Istituto Oikos e AICS, Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, per raccontare l’imprenditoria femminile sostenibile. Segnalateci le storie di imprenditrici che coniugano business, sostenibilità ambientale e inclusione sociale. Le candidature vanno inviate all’indirizzo email alleyoop@ilsole24ore.com con le seguenti informazioni (*obbligatorio)
- Nome e cognome dell’imprenditrice*:
- Nome dell’impresa*:
- Sito web*:
- Pagina facebook:
- In che modo è un’impresa sostenibile* (max 2000 caratteri)
- In che modo è un’impresa inclusiva (max 2000 caratteri)
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