Raccontare le donne mediorientali, quelle che vivono ogni giorno le conseguenze della guerra che da quasi otto anni coinvolge la Siria e gli Stati vicini, in maniera inedita. Vera. Lontana dagli stereotipi diffusi in Occidente, secondo i quali essere donna in una delle Terre colpite dal conflitto significa o essere una vittima indifesa, o, al massimo, una combattente sexy. E invece no.
È da questo no che è nato “I am the revolution”, il docu-film della regista e giornalista di guerra Benedetta Argentieri. Obiettivo della pellicola, come spiega lei stessa in occasione del suo intervento al TedX “#Oltremisura” organizzato da Catherine e Francois De Brabant lo scorso 14 ottobre a Milano, è restituire a queste donne la loro voce.
Una voce che il più delle volte è fatta da molte più sfumature rispetto a quelle che si immagina chi vive dall’altra parte del Mar Mediterraneo e che dalla guerra in Siria è stato toccato solo in occasione di qualche allarme terrorismo.
Chi sono le donne protagoniste del tuo lavoro?
Sono donne molto diverse tra loro ma soprattutto diverse dagli stereotipi nei quali erroneamente vengono incasellate. Me ne sono resa conto io stessa andando in quei territori per seguire gli sviluppi del conflitto.
Qual è la cosa che ti ha colpito di più?
Mi ha colpito il fatto che ci sono sempre più donne che voglio essere protagoniste di quello che sta accadendo. C’è chi lo fa diventando una combattente e anche chi sceglie di lavorare su un fronte più politico. Il risultato è, spesso, in entrambi i casi una rivoluzione di genere che passa per l’organizzazione di corsi e iniziative per far capire alle altre donne che anche loro hanno dei diritti. Ed è la guerra che paradossalmente rende possibile questo cambiamento.
Che cosa c’è di vero quindi nel racconto di chi dipinge le donne in guerra solo come vittime?
Purtroppo c’è molto ma non tutto. È vero infatti che le donne sono quelle che se la passano peggio perché la violenza su di loro è ancora uno strumento di guerra. Ma la loro realtà non è solo questa. La guerra con il suo caos, come dicevo, rappresenta paradossalmente un’opportunità di costruire un ordine nuovo, migliore, più giusto, nel quale anche le donne abbiano un ruolo di primo piano.
Le combattenti donne sono diverse dai colleghi uomini o ne mutuano modi e atteggiamenti?
Il loro stile è sicuramente diverso da quello dei combattenti uomini. Ma questo non significa che siano meno brave o determinate. Di diverso c’è invece sicuramente il senso di solidarietà e la loro umanità.
Quanta consapevolezza c’è in queste donne del concetto di parità o discriminazioni di genere?
La consapevolezza esiste anche in chi non è direttamente coinvolta nel conflitto. In Afganistan, per esempio, ho avuto modo di visitare un villaggio talebano e mi sono resa conto di quanto le donne che vi abitavano fossero estremamente consapevoli delle ingiustizie che vivevano e dei privilegi di cui, al contrario, godono gli uomini. Non solo. Ho visto donne consapevoli che la mancanza di istruzione le tiene all’angolo. Donne che per le loro figlie desiderano un futuro diverso, che non sia più solo quello di moglie e madre. Può sembrare poco ma in queste realtà anche la consapevolezza rappresenta un grande cambiamento.
Quanto hanno influito sull’andamento della guerra in Siria le combattenti donne?
La presenza delle donne ha sicuramente influito. In primo luogo per l’apporto numerico visto che le combattenti donne sono circa 24mila. Inoltre si devono alle donne i successi in alcune battaglie simbolo come quella di Kobane. Una conferma questa che ho ricevuto anche parlando con molti soldati americani che mi hanno assicurato di non aver mai visto delle donne combattere così.