“Il ddl Pillon potrebbe sollevare un serio conflitto di costituzionalità”. Parola di Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, voce tra le più autorevoli nel panorama del contrasto alla violenza di genere. Profondo conoscitore del fenomeno, ha seguito il tema della tutela dei soggetti deboli prima in procura, poi dal 1991 come presidente di collegio. Suo il lavoro “Crimini contro le donne, politiche, leggi e buone pratiche” (Franco Angeli, 2017), un volume che raccoglie anni di studio e di esperienza in tribunale.
Dottor Roia, che idea si è fatta del ddl Pillon e del suo progetto di riformare il diritto di famiglia?
Si tratta di una riforma devastante su più fronti. Il primo è quello di palesare una manifesta sfiducia nei confronti dei giudici che devono applicare le norme e quindi devono leggere le singole vicende familiari. Teniamo presente che non è possibile codificare un unico intervento da parte del giudice laddove c’è una crisi nella relazione familiare: ogni crisi ha una sua connotazione, ogni rapporto ha una sua particolarità che deve essere analizzata, valutata e decisa dal singolo giudice. Ma c’è un secondo aspetto non meno grave: la riforma contenuta nel ddl Pillon è basata su una visione adultocentrica e poco proiettata all’interesse del minore.
In che senso?
Penso al doppio domicilio. E’ impensabile che un minore possa avere in maniera così meccanica due residenze, due luoghi di dimora, un padre e una madre di genere maschile e femminile rinnegando così tutte le altre unioni che sono riconosciute anche a livello giuridico interno. E soprattutto si tratta il minore come se fosse un ospite di due case diverse, di due stili di vita diversi. Questo può provocare dei danni nel bambino che a lungo andare può manifestare dei casi di scissione. Quando ero pubblico ministero ricordo il caso di due genitori separati che imponevano al minore una conformità obbligata a due stili di vita: questa povera bambina non aveva più una propria identità ma si conformava di volta in volta ai desiderata dei genitori. Questa non è altro che una forma di violenza nei confronti del minore.
Il ddl Pillon può avere dei profili di incostituzionalità?
Sì, assolutamente. Basti pensare alle convenzioni internazionali ratificate dal nostro Paese che in forza dell’articolo 117, comma 1 della Costituzione sono a tutti gli effetti leggi dello Stato. Quando il nostro Paese ratifica un accordo internazionale questo diventa una norma positiva per lo Stato italiano. Ci può essere quindi un conflitto con l’articolo 117 per alcuni principi del ddl Pillon in palese contrasto con alcune convenzioni. Penso a quella di New York e di Istanbul che pongono al centro della contesa tra adulti l’interesse del bambino. E che pongono i genitori sul piano di una responsabilità che deve essere esercitata ma sempre nell’interesse del minore. Non esiste un diritto a essere padre o madre a prescindere dal diritto del minore. Ma c’è un diritto a essere padri e madri sempre mettendo al primo posto il benessere del proprio figlio. L’impianto del disegno di legge sconfessa questa impostazione.
Che cos’è la sindrome di alienazione parentale ovvero alienazione genitoriale o manipolazione?
Si tratta di una falsa sindrome, nel senso che sotto il profilo di patologia non ha avuto nessun tipo di riconoscimento scientifico perché non è mai stata inclusa nei manuali delle malattie psichiatriche che è il Dsm. E quindi non ha ottenuto una validazione. Oggi non si chiama più sindrome ma viene definita come atteggiamento che viene descritto nell’ambito di tutte le esperienze di separazione, sia in presenza che in assenza di violenza dove si ritiene che un genitore possa manipolare il bambino mettendolo contro l’altro attraverso una sorta di “brain washing”, cioè un lavaggio del cervello, facendo in modo che il figlio non voglia frequentarlo.
Secondo la sua esperienza questo fenomeno esiste?
Questo atteggiamento può esistere ma non è un fenomeno. Noi non abbiamo dati di accertamento su una proliferazione di massa di queste manipolazioni. Mi spiego: la violenza contro le donne è un fenomeno perché tutti i dati nazionali, internazionali, europei, giudiziari e di analisi Istat ci dicono che normalmente nei procedimenti penali per violenza la donna è vittima nel 90% dei casi. L’alienazione parentale, al contrario, può esistere ma si tratta di singole vicende che possono essere analizzate e risolte dai tribunali. Non si tratta certamente di un fenomeno.
L’attuale legge sull’affidamento condiviso basta a risolvere i problemi legati alla separazione e al divorzio?
E’ una buona legge ma deve essere applicata meglio. E mi riferisco alle conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio approvata all’unanimità dal Parlamento che dice che spesso nelle vicende di separazione il giudice civile disattende l’articolo 31 della Convenzione di Istanbul, quindi una norma dello Stato perché ratificata dall’Italia. L’articolo 31 stabilisce che la violenza agita dal padre nei confronti della madre – e dico padre perché sono i casi statisticamente più numerosi – in presenza dei minori o anche senza che il bambino vi assista, deve essere letta, analizzata e giudicata dal giudice della separazione. Questo spesso non avviene nei nostri tribunali. Non avviene da parte di alcuni degli assistenti sociali, da parte di alcuni consulenti tecnici e da parte di alcuni giudici civili. Quindi oggi il problema è esattamente opposto: la violenza domestica in Italia non viene giustamente e correttamente pesata nelle cause di separazione e di divorzio.
Anche il Csm si è pronunciato sulla questione. Cosa ha stabilito?
Con una risoluzione molto importante per noi magistrati, il 9 maggio 2018 al termine di un’istruttoria profonda fatta nei tribunali, il Csm è giunto alle stesse conclusioni: i giudici della separazione devono leggere e sapere quello che fa il collega del penale quando c’è un caso di violenza familiare. E ci dà alcune indicazioni per porre rimedio a questa lacuna tra cui quello di valorizzare il ruolo del pm negli affari civili.
E tutto questo come si concilia con la riforma sull’affido condiviso presentata al Senato?
In nessun modo. Noi abbiamo il problema esattamente opposto a quello che il ddl Pillon vorrebbe tentare di risolvere.
Come risponde allora a chi lamenta uno squilibrio nel trattamento riservato ai padri nei tribunali italiani?
E’ una posizione. Come lo è quella dei centri anti-violenza che lamentano una discriminazione nei confronti delle madri nei casi di violenza domestica. Quando una donna vittima di violenza viene poi costretta in nome della bigenitorialità a favorire gli incontri tra il figlio e il padre violento subisce una forma di vittimizzazione secondaria. E’ questo il vero problema oggi, secondo me.
Come mai allora a oggi, nonostante tutti gli sforzi, non si riesce a contrastare l’uso della Pas nei tribunali?
E’ una disfunzione culturale. Bisognerebbe fare una grande opera di formazione su tutti gli operatori che fanno le indagini sulla famiglia: mi riferisco agli assistenti sociali e ai consulenti tecnici. Perché alcuni di questi operatori leggono la violenza e la pesano, altri ritengono che non sia di loro competenza ma del giudice penale. Questo atteggiamento è profondamente sbagliato: perché quando un giudice deve valutare l’idoneità di un genitore a svolgere il suo ruolo, deve valutare anche l’esistenza o meno di comportamenti violenti. Non può essere qualcosa di separato. Quando un bambino si rifiuta di vedere un genitore, penso ai casi di violenza domestica, potrebbe legittimamente non volerlo frequentare a seguito di traumi innescati dai comportamenti violenti di quel genitore. E invece spesso si dice che quel bambino è stato alienato dalla madre.