Silicon Valley: la spedizione dei giovani italiani che vogliono cambiare il mondo

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Lasciare i miei bambini di 4 e 2 anni per due lunghissime settimane, per andare tra San Francisco e Silicon Valley, con 40 millenial ingegneri ricercatori informatici e biomedici che, guidati dal loro responsabile, vivono questo momento per completare il loro progetto di sviluppo con il N.E.C.S.T. Lab del Politecnico di Milano. Potevo farlo? Da un lato un progetto eccezionale, un’esperienza eccitante dall’altra parte del mondo a cui potermi dedicare, dall’altro restare coi miei bambini. In testa le domande di ogni mamma: e se succedesse qualcosa? Non sarà un carico eccessivo lasciare a mio marito l’onere esclusivo per tutti quei giorni? Cosa dirà il mondo di me?

fb_img_1527210419932A volte, però, i legami deboli sono più forti dei legami forti. Studenti, laureandi, dottorandi erano pronti a volare dall’altra parte dell’Oceano per mettersi alla prova con i loro progetti di ricerca, coordinati da un docente outstanding, Marco D. Santambrogio, che conosco dai tempi del liceo e con cui ho condiviso un pezzo di strada quando eravamo studenti. Un progetto che era una sirena a cui difficilmente si poteva dire di noEppure dall’altra parte la famiglia aveva un carico da 90 da giocare.“Mamma lo sai che al saggio io sarò Brontolo, uno dei nanetti, e uscirò per primo?”. E io sono partita lo stesso. Li ho lasciati una mattina presto, dormivano e io avevo gli occhi lucidi: mi sono persa il live del saggio e della festa di fine anno. Lui è stato bravissimo, mi ha inviato il video tramite il papà ed era orgoglioso. Erano anni che non mi capitava più: quella sensazione triste alla bocca dello stomaco, quella tristezza nel partire, la voglia di tornare. Mi era successo da adolescente di spingermi verso nuove esperienze ma di avere sentito al primo impatto quella voglia di scappare subito a casa. Una volta al giorno per i primi giorni in Silicon Valley questa sensazione è rimasta, ma poi qualcosa è cambiato.

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Da una parte i pensieri lasciati a casa, dall’altra quelli di essere parte di una spedizione avventurosa, ma come giocatore in prestito da un’altra squadra. Sarei stata capace di inserirmi in questo gruppo coeso di giovani nerd? Ho lasciato questo mondo nel 2010, certo conosco il target, ma la situazione è diversa e il tempo è poco. Il mio ruolo è ibrido, fluido, quasi indefinibile: seguire i ragazzi rispetto al loro percorso di sviluppo, dare supporto alla comunicazione del progetto per valorizzarlo agli occhi di interlocutori potenzialmente interessati a collaborare (le aziende) e a parlarne (la stampa). Tradotto in aziendalese: un po’ di people development, un pizzico di PR in salsa open innovation, del sano e autentico business networking per la narrazione e anche della candidate attraction per l’università come coda lunga, che non guasta mai.

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Poi, però, le cose accadono perché devono accadere. L’emozione forte, l’innamoramento, il giorno in cui la primavera mi è esplosa dentro lo stomaco, è stato l’11mo, dei 15. Eravamo a Stanford. Nei giorni precedenti eravamo stati impegnati in contesti molto diversi: prima suddivisi tra Vancouver, San Josè e San Francisco in 3 conferenze parallele, e poi tutti insieme: Berkeley, Uber, Sysdig, IDEO, Pinterest, Xilinx, Coinbase e Stanford. Nei giorni seguenti a quel momento ci sarebbero state Google, Samsung, Oracle, LinkedIn, Waymo, Microsoft, il talk da far accapponare la pelle dei premi Turing John Hennessy e David Patterson a Stanford, e poi Facebook, Intel PSG e Dropbox.

Quell’undicesimo giorno i protagonisti erano ancora i nostri ragazzi con i loro progetti. La notte precedente è trascorsa a rivedere i pezzi, controllare le slide (perfette!)ripassare le presentazioni. Ognuno avrebbe avuto pochi minuti per dimostrare (magari) di poter cambiare il mondo. Fra gli altri c’era Irene. Le avevo suggerito di agganciare una persona fra il pubblico con lo sguardo, per acquisire maggiore sicurezza e poi partire con il contenuto e con le emozioni che sapeva far trasparire. Ingegnere biomedico, Irene ha scelto me.

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Ed è così che quel giorno, quando Irene è salita sul palco a fare la sua presentazione e io ero lì intenta ad incarnare il mio ruolo di “gancio”, l’energia dei suoi 23 anni e il suo sorriso spontaneo, la sua competenza straordinaria e al contempo la sua incoscienza, io ho sentito risuonare dentro un’emozione paragonabile ad un innamoramento improvviso. Ero lì che ascoltavo, nella mia dimensione adulta, e il fatto che quel gancio fossi io, in un momento così determinante della sua vita, mi ha fatto riprovare quell’emozione incredibile, quella sensazione di appagamento che senti quando ti ricordi il vero perché tu sei lì a fare quella cosa, qual è il tuo obiettivo nel mondo, il perché hai fatto tanto per essere scelta ed essere fra loro. Lo riconosci quel momento, ti risuona dentro a farti ricordare che non esiste una distinzione fra lavoro e vita privata, ma che sono dimensioni che si intersecano in un progetto complessivo verso la felicità.

Ho fatto bene a prendere quel volo? Ora non ho dubbi. Questa esperienza mi ha restituito dopo un periodo difficile il mio “perché” verso il futuro del lavoro, mi ha riposizionato verso quel limite sotto al quale non ti devi permettere di stare. Questa è la libertà.

  • luisa pogliana |

    sei proprio straordinaria. non conta solo quello che si fa, ma come lo si fa. il bello del lavoro è che facendolo facciamo noi stesse.

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