Social media? Preferisco scendere in strada e marciare

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«Personalmente, preferisco scendere in strada e marciare». Me lo ha scritto Lola Larra, autrice – insieme al disegnatore Vicente Reinamontes – di “A Sud dell’Alameda. Diario di un’occupazione», Edicola Ediciones. È ispirato alla storia delle rivolte studentesche del 2006 e del 2011 in Cile, il Paese in cui vive. Sono giorni, che questa frase di Lola mi frulla in testa. Di fronte all’ennesimo morto in mare, in quella Scilla e Cariddi che è diventato il Mar Mediterraneo tra la Libia e la Sicilia. Di fronte all’ennesima frase disumana di chi è al governo ma non sa governare secondo il principio di umanità.

Ho indossato con orgoglio la maglietta rossa. Ma dentro di me sapevo che non era abbastanza. Dove sono finite, le manifestazioni di piazza a cui per anni ho partecipato? Ai tempi dell’università, ai tempi della guerra nella ex Jugoslavia, ai tempi del primo governo Berlusconi e dell’articolo 18. «Mettiamo il nostro corpo su quelle navi», ha scritto Sandro Veronesi sul Corriere della Sera. Mettiamoci il nostro corpo, per dire no.

Il Cile è ancora uno di questi posti, nel mondo, in cui le proteste si fanno con i corpi, con la piazza. Le ragazze del Cile hanno appena occupato le università per chiedere la parità di trattamento con i ragazzi. Dopo il 2006 e il 2011, il Cile ora ha il suo 2018.

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Lola, in Italia la protesta è sempre meno in piazza e sempre più relegata all’ambito dei social. Ma un conto è un post su Facebook con tanti like, un conto sono migliaia di persone fisiche per strada. La protesta sta cambiando i suoi canali anche in Cile? 

Le proteste reali e quelle virtuali si autoalimentano. In una marcia quasi tutti scattano foto e fanno video per postarli sui social. Questo amplifica la protesta in una maniera impensabile fino a poco tempo fa. È una cosa meravigliosa. Ma personalmente, preferisco scendere in strada, marciare, mi piace la sensazione di stare insieme ad altre persone, di avanzare insieme, uno accanto all’altro, facendoci compagnia, sentire che non si è soli, sentire che c’è qualcosa che ci lega anche se non ci conosciamo né sappiamo come si chiama quello accanto a noi. È un po’ come guardare un film al cinema o su Netflix con l’iPad. Il rituale di arrivare al cinema e condividere lo spazio fisico con altre persone che non conosci ma che senti vicine perché stanno vivendo lo stesso che vivi tu, nello stesso momento, non si può paragonare con l’atto di guardare episodio dopo episodio di una serie TV da solo a casa. Al cinema, come nella marcia, ti senti accompagnato nelle tue emozioni, senti che fai parte di una comunità, che condividi veramente una storia.

Come giornalista e come scrittrice, ha raccontato le occupazioni universitarie del 2006 e del 2011 in Cile. In che cosa si distingue l’ultima ondata di occupazioni negli atenei cileni? 

Credo che sia ancora presto per fare un’analisi. Le marce e le occupazioni femministe che da aprile vengono organizzate in varie università cilene sono molto recenti e dovrà passare del tempo per vedere se questo movimento modificherà, o meno, le leggi universitarie e statali così come le abitudini sociali e individuali. Ma paragonando questi tre movimenti, credo che le marce femministe di oggi abbiano il loro punto di riferimento nelle mobilitazioni degli studenti delle scuole superiori del 2006 e degli studenti universitari del 2011. Anche se le cose concrete che chiedono sono diverse, c’è lo stesso spirito di base, che ha a che vedere con il bene comune come qualcosa di irrinunciabile in una società così neoliberale e individualistica come quella cilena degli ultimi decenni. Mi piace pensare che Paula, una delle protagoniste di A Sud dell’Alameda, che ai tempi guidava la rivolta in una scuola superiore, oggi starebbe frequentando l’università e starebbe partecipando attivamente alle occupazioni e alle marce femministe.

È solo la parità di diritti uomo-donna, ad aver acceso la miccia delle recenti proteste in Cile, o c’è dell’altro? 

Credo che molti movimenti sociali, specialmente quelli dove i protagonisti sono gli studenti, abbiano inizio da qualcosa di molto concreto, da cui molte volte nasce una riflessione più profonda intorno a problemi strutturali più complessi e globali.  Il Maggio francese ha avuto inizio quando gli studenti dell’università di Nanterre hanno chiesto più flessibilità nelle norme della loro facoltà, poi il movimento è cresciuto e la protesta si è spostata su rivendicazioni sociali, culturali e politiche più profonde.

Le proteste sfociate nella strage di Piazza Tienanmen sono iniziate quando gli studenti cinesi hanno chiesto migliori condizioni nelle mense e negli studentati; in un secondo momento la protesta ha riguardato riforme politiche, come l’apertura del regime, la libertà di espressione, la democrazia.

Inizialmente, i «pinguini» del 2016 (gli studenti cileni sono chiamati così per via delle divise scolastiche, giacca nera e camicia bianca) volevano ottenere un buono per l’autobus e la gratuità dell’esame d’ingresso all’università. Successivamente hanno iniziato a chiedere che l’educazione diventasse gratuita e di qualità per tutti, insieme alle modifiche della legge sull’educazione.

Le proteste delle studentesse cilene di questo 2018 sono iniziate con la richiesta di applicazione dei protocolli contro gli abusi e le molestie, poi si è iniziato a protestare per ottenere un’educazione non sessista e di parità. Si parte dal particolare per arrivare all’universale.

 Vede un legame tra le manifestazioni Womeninmarch e #Metoo negli Usa e quanto è accaduto di recente in Cile? O le istanze alla base sono diverse? 

Qui in Cile c’è chi ha criticato le occupazioni femministe accusandole di essere le proteste di un élite, si è detto che quello che le studentesse chiedono è lontanissimo da quello di cui hanno veramente bisogno le donne vulnerabili, ovvero le lavoratrici, le donne vittime dei propri mariti, quelle che devono prendersi cura dei figli da sole, quelle che hanno due lavori, uno in ufficio e l’altro a casa… Forse è vero, ma non è questo il punto.
Può generare sospetto che le attrici di Hollywood, questi esseri privilegiati della società, si lamentino delle molestie sessuali. Si può dire, «Be’ non è così importante o grave quello che capita a loro». Può essere anche vero. Ma credo che non si debba focalizzare l’attenzione su questo. Che siano attrici di Hollywood o studentesse di un’università costosa e privata del Cile, le donne che si fanno sentire contro una situazione di ingiustizia o contro qualche tipo di maltrattamento fanno in modo che tutti (e dico tutti e tutte) arriviamo a porci delle domande, a prendere posizione, a riflettere. E fanno sì che queste violenze, dal machismo ai femminicidi, non siano più tollerate dalle nuove generazioni.

Esistono ingiustizie e maltrattamenti peggiori di quelli che portano la bandiera di questi movimenti femminili che potremmo definire ‘i più mediatici’? Sì, certo, ma io credo che tutta questa rabbia (che a volte sembra sfuggire di mano e trasformarsi in eccesso) sia un passo verso una condizione più riflessiva che ci aiuti a stabilire migliori norme di convivenza e a concentrarci sulle grandi ingiustizie della società capitalista. «Non vogliamo donne libere in un paese di schiavi», ha detto poco tempo fa la giornalista cilena Faride Zerán. E lo condivido pienamente.

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  • andrea |

    vero sono d ‘accordo con te

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