“Dopotutto, dove iniziano i diritti umani universali? Nei piccoli posti, vicino casa, così vicini e così piccoli da non poter essere visti in nessuna mappa del mondo. Eppure questi rappresentano il mondo di ogni singola persona; il quartiere in cui si vive, la scuola frequentata, la fabbrica, fattoria o ufficio dove si lavora. (…) A meno che questi diritti non abbiano significato in tali luoghi, hanno ben poco significato altrove”. Sono parole di Eleanor Roosevelt, primo presidente della Commissione per i Diritti Umani (discorso alle Nazioni Unite a New York il 27 marzo 1958). Ben ‘70 anni fa, la donna che verrà ribattezzata dal Presidente Truman “First Lady del Mondo”, fonte di ispirazione per costituzioni e leggi internazionali di tutti i Paesi, ricordava quanto fosse importante che i diritti umani non venissero soltanto riconosciuti ma costituissero elemento fondante di ogni realtà e ambiente in cui si possa esprimere la personalità degli individui.
Nelle scorse settimane centinaia di migliaia di persone si sono riversate in piazza durante i Pride di tutta Italia a sostegno dei diritti LGBT*. Hanno sfilato lungo cortei infiniti, una vera e propria marea contro ogni tipo di discriminazione. Un successo che si è, tuttavia, portato dietro anche alcune polemiche. Ci si è chiesti perché nei Pride più rappresentativi (Milano e Roma per fare un esempio) abbiano sfilato numerosi brand commerciali indossati o sbandierati dai dipendenti di grandi multinazionali così come di piccole aziende. Domanda legittima, ogni sponsorizzazione, specie se legata a eventi di rivendicazione, deve avere alla base scelte dettate da una linea etica forte. Detto ciò la questione sollevata non può limitarsi a una valutazione astratta circa l’opportunità o meno di associare un brand a un’iniziativa a scopo umanitario. Sarebbe quantomeno riduttivo.
Partiamo da un concetto di base, quello enunciato da Eleanor Roosevelt: quanto è importante che i diritti umani permeino gli ambienti in cui viviamo? Si parla spesso di coming out e di riconoscimento nell’ambito della propria vita personale, ma gran parte della nostra quotidianità si svolge in luoghi diversi da quello intimo o familiare. La maggior parte di noi trascorre un terzo della propria esistenza (non me ne voglia chi ne passa almeno la metà) in uffici, fabbriche, negozi, ecc. Come dimenticarci di questi luoghi quando si parla di diritti? Se non ci sentiamo liberi di sviluppare la nostra personalità sul posto di lavoro come possiamo sentirci noi stessi trovando il necessario equilibrio per realizzarci?
A mio modesto parere dei luoghi di lavoro si deve parlare eccome.
Da una recente ricerca, commissionata da Vodafone alla società di consulenza Out Now, su un campione di più di 3.000 giovani LGBT* intervistati in 15 paesi, è emerso che al primo impiego il 41% dei giovani LGBT* non dichiara il proprio orientamento sessuale. I motivi principali sono molteplici: innanzitutto la preoccupazione di una reazione negativa da parte dei colleghi (60%), il timore che venire allo scoperto possa influire negativamente sulle prospettive di carriera (42%) o sulle probabilità di ottenere una promozione (33%).
Se poi si analizza più approfonditamente la ricerca i risultati sono ancor più significativi. Un intervistato su cinque (21%) ha detto che la cosa più difficile che ha fatto è stata dichiarare il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro. Tre quarti dei dipendenti LGBT* (76%) hanno nascosto almeno una volta il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere sul posto di lavoro. Ad oggi, per timore di subire discriminazioni, solo il 29% delle donne LGBT+ d’età compresa tra i 18 e i 35 anni ha dichiarato il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro, rispetto al 44% degli uomini. Per l’83% deli intervistati sapere in maniera chiara e manifesta che i dirigenti prendono sul serio il tema dell’inclusione LGBT* aiuterebbe a non avere timore di venire allo scoperto.
Quali sono le conseguenze di questi timori? Molti ammettono che non aver dichiarato il proprio status ha avuto ripercussioni negative dal punto di vista lavorativo, e quasi un terzo (28%) dichiara che la cosa ha inciso sulla sua produttività. Tutti dati che non soltanto mettono in evidenza l’importanza di dichiarare apertamente la propria sessualità e il proprio orientamento di genere sul luogo di lavoro ma, soprattutto, sottolineano la necessità di un sostegno per i giovani LGBT* che si affacciano nel mondo del lavoro.
Se partecipare a un Pride con i propri dipendenti o sostenerlo significa permettere ai propri dipendenti di intraprendere progetti che consentano loro di sentirsi realizzati e a proprio agio in uno dei luoghi di riferimento della propria esistenza, a mio modesto parere, ben venga la presenza di brand durante la parata dei Pride. Se i diritti non hanno significato in questi luoghi – come disse Eleanor Roosevelt – avranno ben poco significato altrove. Se le aziende non si interrogassero sulle questioni relative ai diritti, la società perderebbe un tassello importante per la sua evoluzione.
Nel caso specifico l’attenzione dell’azienda a queste tematiche ha dato i suoi frutti. La ricerca in questione ha dato forma a “LGBT+ Friends Connect”, un nuovo programma internazionale di Vodafone che si pone l’obiettivo di sostenere persone LGBT* al loro primo impiego e di formare in tal senso i dirigenti: programmi per laureati, corsi di formazione e corsi di leadership per sostenere, trattenere e attrarre dipendenti LGBT*; un tool kit per aiutare i dirigenti a inserire l’inclusione LGBT* in ogni fase del percorso professionale del dipendente; un programma di supporto per laureati LGBT*; un codice di condotta aggiornato e incentrato sulle tematiche dell’inclusione, sono solo alcuni dei punti fondamentali di questo programma.
“In Vodafone ci impegniamo per creare una cultura che accetti ognuno per quello che è, compreso l’orientamento sessuale e l’identità di genere. La formazione per i dipendenti, a tutti i livelli, e il sostegno concreto attraverso programmi come il nostro possono fare la differenza, contribuendo ad attrarre e mantenere una forza lavoro di talento, diversificata e produttiva” ha commentato l’amministratore delegato uscente del Gruppo Vodafone, Vittorio Colao.
Speriamo che le sue parole e la partecipazione di Vodafone ai Pride di Roma e Milano sia di ispirazione per quelle aziende che non solo non hanno portato i loro brand al Pride, ma che nemmeno si sono poste il problema.