Arriva il caldo e cambia l’abbigliamento. Anche quello degli studenti. Così arriva puntuale l’annosa questione di come ci si debba vestire a scuola. L’elenco degli istituti italiani che in questi anni si sono confrontati con il tema del dress code e dell’abbigliamento inappropriato è davvero lungo. Caso recente quello dell’Istituto Leonardo da Vinci di Milano, dove la preside Concetta Pragliola ha già fatto pervenire una circolare alle famiglie sull’argomento. Mentre all’Istituto Comprensivo Statale Centro Storico Moncalieri la preside Valeria Fantino, a sua volta esasperata per canotte, shorts, minigonne, trucco pesante, mutande a vista, in particolare tra i ragazzi delle scuole medie, si è confrontata con le famiglie attraverso la pagina Facebook dell’Istituto, in previsione di un regolamento scritto che dovrà a breve entrare in vigore, e che riguarderà diverse centinaia di studenti ed il loro guardaroba.
Se liberati dalle divise scolastiche infatti, i ragazzi tendono a portare a scuola, con i propri vestiti anche il loro bagaglio emotivo, le loro insicurezze, il bisogno di ribellione o il bisogno di emulazione o di appartenenza ad un gruppo, tipici degli adolescenti che si devono costruire una loro identità. Identità, che, per loro come per gli adulti, passa e si manifesta, inevitabilmente, attraverso il loro abbigliamento, ovvero la parte più espressiva del loro relazionarsi con gli altri.
E se certi studenti si presentano a scuola vestiti come in spiaggia, la colpa non è loro. O meglio, non è principalmente colpa loro. Viviamo in una società sempre più de-responsabilizzata e disorientata, dove rispetto al passato si fa molta più fatica ad accettare e adeguarsi alle regole e si creano dei vuoti educativi importanti.
Gli stessi adulti hanno perso tanti punti fermi, trovandosi essi stessi a doversi costruire una propria identità sociale e lavorativa (che in passato invece erano date dal ceto, dalla professione, dalle gerarchie, dalla stabilità del lavoro e dalla presenza di norme stabilite e condivise dalla comunità). I ragazzi si trovano dunque a crescere in un contesto dove i riferimenti tradizionali rappresentati dalla scuola e dalla famiglia, lasciano sempre maggior spazio ai social, ai ‘grandi fratelli’, alla TV, alla tecnologia che ti dà accesso veloce a tutto e che apparentemente è in grado di semplificare qualsiasi cosa.
I concetti di fatica, conquista, traguardo, rispetto delle regole, sono visti come degli ostacoli facilmente aggirabili, e non come opportunità per crescere: se tutto mi appare facile, possibile, immediato, perché mai dovrei preoccuparmi di come mi vesto a scuola? Io sono io, e il mio mondo adulto sarà come questo: facile, possibile, immediato.
E si sa che nel mondo adulto e del lavoro, non basta vestirsi solo come si desidera, se non conosciamo il resto della storia e degli attori. E’ quindi necessario riportare la barra al centro, fare una corale e coraggiosa azione di reset nei confronti dei ragazzi. Partendo dalla scuola e dalle famiglie che devono lavorare insieme, eventualmente supportati da specialisti nel campo dello stile e dalla comunicazione, per creare più consapevolezza. La stessa preside Fantino ha dichiarato nell’intervista a La Stampa.it la sua intenzione di “invitare uno stilista a scuola, che racconti come ci si possa abbigliare in maniera alternativa (…), essere trendy senza per forza trascedere nel cattivo gusto”. Si dichiara convinta che ai ragazzi piacerà, e personalmente penso che abbia ragione.
Spiegar loro cosa l’abbigliamento significa per noi, come ci fa sentire, di cosa è fatto, e di come ci racconta agli altri apre la mente, li fa ragionare su sé stessi, crea consapevolezza e responsabilità. Mostrare anche che è possibile in tutto questo tutelare la propria individualità ed espressione personale, non può che arricchirli e motivarli. E che alla fine disquisire di 3 cm di un orlo di una gonna o del tipo di pantalone indossato a scuola diventa superfluo se invece colgono la sostanza e la sanno mettere in atto. Solo così si potranno crescere più consapevoli e responsabili e in un’ottica lavorativa essere in grado di relazionarsi in modo più fluido ed efficace con gli altri anche quando cambiano in contesti.
Solo chi non vuole capire il valore della consapevolezza e del rispetto dei contesti e delle relazioni interpersonali tenderà a tacciare queste iniziative come bacchettone, proibizioniste, autoritarie, o lanciare allarmismi inutili come si è letto di recente dopo le varie iniziative dei diversi Istituti in Italia.
Perché se è vero che nei vari contesti sociali, culturali e lavorativi può cambiare il concetto di cosa è opportuno e decoroso indossare e cosa no (come ha sottolineato la sociologa Chiara Saraceno ad Orizzontescuola.it), dobbiamo quantomeno concordare sul fatto che il rispetto è un valore cui dovremmo tutti riferirci in generale, non solo per come ci vestiamo, ma per come ci relazioniamo con gli altri e con il nostro ambiente, e per costruire una società migliore.