Ho passato una larga parte della mia vita a manifestare: l’ho fatto per mille ragioni diverse. L’ho fatto perché credevo nella protesta e l’ho fatto perché qualcuno mi aveva incaricato di scriverne. L’ho fatto perché ho sempre pensato che una società civile abbia il diritto di manifestare il dissenso in maniera anche dura, ma rispettosa e non violenta. E non c’è stata una sola volta, una di numero, in cui qualcosa non sia andato storto, in cui non siano volati sassi verso le forze dell’ordine (in genere ragazzi della stessa età di quelli che gli lanciavano addosso le pietre), in cui tra gli slogan urlati a squarciagola non se ne sia infilato qualcuno contro ‘gli sbirri’ che se ne stavano lì a raccattare insulti, pietre e provocazioni. A scansarli finché riuscivano e poi abbassare le visiere dei caschi, alzare gli scudi e caricare. E a volte menare così forte da ferire chi gli capitava sotto mano, a volte a prendersi una scarica di legnate che non bastano caschi, scudi e assetti antisommossa per non farli finire in ospedale.
Io lo so cosa succede in manifestazione: conosco l’adrenalina che sale dallo stomaco alla gola e ti fa ondeggiare tra l’euforia e la paura, che ti carica e ti riempie testa e cuore di quel senso di invincibilità che ti fa pensare che davvero quel giorno sei dalla parte giusta, che stretto tra le persone che sfilano con te stai facendo qualcosa di importante. Conosco il senso di appartenenza, conosco i sorrisi che scoprono i denti quando incontrano la faccia di qualcuno che non fa parte del tuo corteo e non capisce che se sei lì a urlare sputando voce e saliva lo fai anche per lui. E conosco, mio malgrado, anche la rabbia che stira quei sorrisi in ghigni di violenta idiozia, conosco il panico che scende dal cervello alle gambe e ti fa scappare veloce perché qualcuno, un po’ più avanti di te, ha deciso che le parole non bastano. Che ci vuole la guerra dei sassi e delle bottiglie incendiarie. Conosco la strategia del limone e del fazzoletto tirato sulla bocca per non sentirsi soffocare quando arrivano i lacrimogeni.
E conosco la frustrazione di tornare a casa, lanciare via gli anfibi e appallottolare fazzoletti bagnati di lacrime, che non sono però quelle del gas, ma quelle del giorno in cui capisci che, no, non cambierà mai niente finché l’ideologia dividerà le persone, finché chi la pensa diversamente continuerà ad essere scambiato per un nemico e non per la controparte di un dibattito politico. Non ci sarà nessuna istanza, per quanto giusta e sacrosanta, che verrà accolta da chi ha il potere di farlo fino a quando sarà portata avanti con la violenza della rabbia di chi sceglie di andare in manifestazione per sfogare un vissuto di soprusi e ingiustizie. A maggior ragione se chi lo fa, di soprusi e ingiustizie, ne ha patiti in ragione considerevolmente minore di quel sottoproletariato che aspira a difendere.
La violenza non è mai servita a nessuna causa: i neri d’America non hanno ottenuto l’uguaglianza dei diritti grazie alle pistole delle Pantere Nere. La vera rivoluzione che ha portato gli afroamericani al riconoscimento dei diritti civili è iniziata il primo dicembre del 1955 quando una sartina di 42 anni oppose una resistenza strenua e pacifica all’uomo che voleva prendere il suo posto sull’autobus. Quella donna era Rosa Parks e la notte del suo arresto a Montgomery, in Alabama, prese il via quella protesta fatta di boicottaggi dei mezzi di trasporto pubblici che piegò il sistema americano. 381 giorni di scioperi e manifestazioni guidati da Martin Luther King che portarono, nel 1956 al riconoscimento da parte della Corte Suprema dell’illegalità della segregazione razziale sugli autobus.
Fu l’ostinazione nel sacrificio a produrre quell’incredibile risultato. Furono 381 giorni di lotta pacifica e civile a far sì che mai più nessun nero fosse costretto a lasciare il proprio posto a un bianco su un mezzo pubblico. Fu la rivoluzione e, pur riconoscendo che anche allora vi furono scontri e morti lasciati sul campo, non fu per merito loro che si giunse a mettere in tasca quella straordinaria vittoria.
I morti e i feriti sono sempre e solo i danni collaterali di una guerra condotta da pochi in nome di molti, molti che però la guerra non la vogliono e si ritrovano impastoiati in una dialettica che esclude il dialogo additando la controparte come nemica. Ma in politica, almeno oggi qui in Italia, non ci sono nemici. Non sono nemici i poliziotti in assetto antisommossa, e non sono nemici i ministri dei quali non si condividono le idee e le iniziative. Nessuno degli uomini identificati oggi come ‘il male della patria’ è in grado, arbitrariamente e univocamente, di prendere dei provvedimenti tali da ledere le nostre libertà fondamentali o mettere a repentaglio la nostra vita. Chiunque oggi scenda in strada indicando un nemico nell’extracomunitario o nel neofascista e inciti a una ribellione violenta verso di loro non è altro che un ignorante, nel senso più puro e semplice della parola. Perché non può essere che ignoranza primigenia e indiscutibile quella che invita a sostituire al potere della parola quello della forza delle mani. Perché la civiltà e la democrazia si fondano sull’uguaglianza dei diritti di ogni essere umano. Perché in Italia il fascismo è perseguito dalla legge come movimento politico, ma a quanto pare nessuna legge può niente contro coloro che, sotto avvolgendosi in una bandiera rossa, nera, o arcobaleno, usano metodi fascisti per affermarla.
E dunque in qualunque giorno della vostra vita scenderete in strada per manifestare, fatelo pacificamente, fatelo con ostinazione ma usando parole civili, fatelo con convinzione ma con altrettanto rispetto. E poi godetevi quella gioia infinita che deriva dal lottare per il bene di tutti. Nessuno escluso.