Vi è mai capitato di sentire il fiato corto davanti ai 3,5 milioni di risultati di Google in risposta ad una semplice domanda? O di andare a caccia di informazioni su un disturbo medico e non riuscire ad orientarvi tra fatti e interpretazioni, distinguendo i pareri autorevoli dagli altri? O ancora di perdervi nei meandri della rete, cedendo al canto sinuoso dei link multimediali, uno via l’altro, e di ritrovarvi stanchi e confusi al termine della navigazione, senza neppure riuscire a ricordare cosa steste cercando?
Viviamo immersi in un mondo di informazioni, in una vera e propria infosfera, come suggerisce Luciano Floridi, uno dei massimi esperti di filosofia ed etica dell’informazione, docente all’Università di Oxford. Aumentano le informazioni su qualunque argomento, dall’attualità alla salute, dalla cucina al cinema, dai viaggi ai corsi di formazione, e cresce la loro accessibilità, un tempo decisamente più limitata. Queste informazioni, inoltre, giungono a noi attraverso un numero sempre più ridotto di supporti, soprattutto schermi di computer e smartphone, con il risultato di una loro “omogeneizzazione”, ossia di una perdita progressiva di quelle caratteristiche distintive (nell’aspetto, dunque nella percezione e nella traccia mnestica) che sono proprie di un libro stampato, di un quotidiano, di un diario.
Risulta evidente come i quesiti sollevati dalle informazioni nella rete non abbiano solo a che fare con la loro qualità (e dunque con il ben noto tema delle “fake news”) ma anche con la quantità e con i processi cognitivi, emotivi e decisionali implicati nella loro gestione. Come selezionare e maneggiare questa mole di informazioni?
Sebbene le nuove tecnologie stiano rimodellando le nostre menti, sfruttando la loro plasticità, il nostro cervello, almeno per il momento, ha limiti strutturali e funzionali che non possono essere superati. Non sorprendono dunque i segnali sempre più evidenti di affaticamento e sovraccarico.
Di Information Overload – o sovraccarico informativo – si parla dal 1996, ossia da quando la Reuters, con grande lungimiranza, commissionò a David Lewis uno studio che il prese il titolo di “Dying for information?”, portando alla luce un tema destinato ad acquisire rilevanza e a far discutere. Nei soggetti intervistati da Lewis, in particolare manager, il sovraccarico informativo si traduceva in una compromessa capacità lavorativa: rallentamento decisionale, sopravvento dell’emotività sulla razionalità (il cervello che inizia a lavorare in una “modalità panico”), difficoltà di concentrazione, errori di lettura, gravi dimenticanze, decisioni avventate. Venivano anche riferiti confusione e frustrazione, mal di stomaco, mal di testa, cattivo umore, irritabilità, insicurezza, ipertensione, ansia e insonnia.
Sintomi assai diffusi anche oggi – in forme più o meno severe a seconda anche dei nostri livelli di perfezionismo e dell’ansia di controllo – sommersi come siamo di email da leggere, allegati da aprire, feed e link salvati sui social in attesa di tempi meno frenetici.
Questo affaticamento riguarda solo noi “e-migrati digitali”? Le generazioni future, grazie a quella plasticità cerebrale che abbiamo menzionato, si muoveranno con maggiore agilità nell’infosfera? Come possiamo aiutare oggi i più giovani a sviluppare le skills utili a sopravvivere in questo mare informativo?
Già David Lewis evidenziava la necessità di imparare a capire quando un’informazione sia veramente utile, e valga la pena acquisirla, o quando invece sia preferibile abbandonarla senza troppo indugio. Di costruire e rafforzare, insomma, quella capacità critica che può aiutarci nella comprensione di quanto stiamo leggendo e nella selezione delle informazioni, evitando il rischio di cadere vittime del confirmation bias (“buttiamo via” tutto ciò che non conosciamo e salviamo solo quanto conferma ciò che già sappiamo) o di approdare a stati confusionali nei quali arriviamo a leggere tutto distrattamente, parole qua e là, come fossimo davanti ad un’opera dell’artista Emilio Isgrò.
Le nuove tecnologie stanno amplificando questioni e problemi che un tempo erano eclissati: la comprensione critica oggi è un bene irrinunciabile. Cos’è una fonte autorevole? E un dato attendibile?
In un interessante articolo pubblicato nel 2012 sul Journal of Medical Internet Research alcuni ricercatori tedeschi hanno mostrato come, posti di fronte al compito di cercare informazioni sulla salute in Internet, i navigatori più esperti si differenziassero dagli altri per alcune importanti skills:
1. Competenze tecniche: i navigatori esperti selezionano e filtrano le informazioni che ottengono in base alla domanda iniziale e alla fonte dei dati; i meno esperti più facilmente si lasciano distrarre da informazioni poco pertinenti;
2. Strategie cognitive: i navigatori più competenti si avvicinano al Web per informarsi, con atteggiamento neutrale; gli altri, più spesso per confermare le proprie opinioni (al motore di ricerca, ad esempio, chiedono: “i vaccini sono dannosi?”).
E’ prioritario che, in famiglia e a scuola, bambini e adolescenti possano apprendere le capacità critiche utli a distinguere una fonte autorevole da una non attendibile, una buona da una cattiva argomentazione. Che possano, tra le altre cose, essere stimolati a non fermarsi alla prima informazione che appare su Google o alla prima pagina di risultati. A non assecondare l’ansia perfezionistica di leggere tutto, né la tendenza ad accogliere ciò che la rete ci propone, senza alcuna selezione. Ad offrire il proprio contributo al Web, riscrivendo le pagine (ad es, di Wikipedia) nelle quali trovino informazioni imprecise o scorrette.
In sintesi, educarli ed educarci ad essere “curatori speciali” del Web che, prima di postare, si chiedono: ne vale la pena? Sto trasmettendo informazioni corrette? O sto contribuendo a diffondere quel rumore di fondo che moltiplica l’incertezza? Nell’epoca della conoscenza partecipata, dovremo non solo imparare a gestire meglio l’eccesso di informazioni ma anche iniziare ad esercitare la nostra responsabilità per la mole di parole, opinioni, commenti e dati che gettiamo nell’infosfera, a volte un po’ distrattamente.