Nan Goldin: sesso droga e… coraggio di vivere

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© Nan Goldin, Trixie on the cot, New York City, 1979

Sesso, droga e… arte, anzi fotografia, diventata sul filo degli anni arte: questi gli ingredienti di The Ballad of Sexual Dependency, la mostra della fotografa americana Nan Goldin (Washington 1953) aperta in Triennale fino al 26 novembre.

La Goldin ha creato un genere con quest’opera rivoluzionaria, uno spaccato ardente di vita bohemienne nella New York tra il finire degli anni ’70 e gli anni ’80 dedicato alla memoria della sorella maggiore Barbara, morta suicida diciannovenne nel 1965 quando Nan aveva solo undici anni. Questa ferita immedicabile aiuta a capire come una ragazzina di una famiglia middle class dello stato di Washington si trasforma in un’adolescente turbolenta, fuggita più volte da casa, che i genitori danno in affidamento e successivamente, diciottenne, viene cacciata dalla famiglia d’affido dopo la scoperta che coltivava marijuana ed era fidanzata con un ragazzo di colore. Siamo nel 1972, Nan arriva a Boston e qui incontra quella che sarà la sua vera famiglia: sette ragazzi androgini con velleità artistiche, tra i quali il suo futuro miglior amico, David Armstrong (1954–2014), sperimentatore del travestitismo e appassionato di fotografia, poi a sua volta affermato fotografo. Nan è già innamorata della macchina fotografica, ma ora vi si dedica anima e corpo, affascinata dalla comunità drag queen che frequenta: “Il mio desiderio era di mostrarle come un terzo genere, un’altra opzione sessualecon molto rispetto e amore, cercando di glorificarle, perché ammiro davvero le persone che ricreano se stesse e manifestano pubblicamente le proprie fantasie.”

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© Nan Goldin, Twisting at my birthday party, New York City, 1980

La Goldin resta fedele a questa volontà di testimoniare la vita quotidiana sua e dei suoi amici anche quando si trasferisce a New York e incomincia a prendere forma il progetto della Ballad, il cui titolo deriva da un verso dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Diverse tribù metropolitane incarnano le turbolente subculture giovanili -siamo nell’epoca del glam rock di David Bowie e del post-punk-, fatte di eccessi e di sregolatezze autodistruttive: la droga e il sesso libero contraddistinguono lo stile di vita di quel milieu di artisti, artistoidi, musicisti e personaggi dello spettacolo che si muove nella Grande Mela, suscitando lo scandalo e la riprovazione delle persone rispettabili.

Non eravamo emarginati, eravamo noi a emarginare la società” dice Nan e in effetti, se ci immergiamo nella mostra, la sensazione è di una società che basta a sé stessa, che è prigioniera di sé stessa, e non chiede nulla a chi sta fuori perché tutto avviene al proprio interno: una delle ragioni della forza di quest’opera sta nel suo trasformare uno spicchio di società newyorchese in un mondo, forse minuscolo ma universale.

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© Nan Goldin, Self-portrait in kimono with Brian, New York City, 1983

La Ballad non è -potevate aspettarvelo, trattandosi di Nan…- una mostra di fotografia tradizionale: si entra nella sala passando in rassegna una serie di locandine e inviti (i primi scritti e disegnati a mano, tradendo la propria matrice di autoproduzione underground), si varca un tendone e ci si siede ad anfiteatro davanti a uno schermo: la proiezione sta per iniziare, non è finzione, ma vita. Per 42 minuti una cascata di circa 700 fotografie si srotola davanti ai nostri occhi, accompagnata da una multiforme colonna sonora nella quale si alternano per esempio (ciascuna per pochi minuti) brani di opera interpretati da Maria Callas e motivi di Charles Aznavour, canzoni dei Velvet Underground e di Jimmy Sommerville. È il modo performativo di presentare il proprio lavoro che Nan utilizzava quando, a casa di amici, arrivava con i suoi sacchi di diapositive, le metteva in sequenza sul proiettore e le mostrava, secondo il rito americano delle foto delle vacanze inflitte ad amici e parenti. Non è un’opera chiusa e bloccata: “La mia arte è un audiovisivo. Non smetterò di farla evolvere per tutto il corso della mia vita. Questo lavoro è nato nel 1979 ma la Ballad continua a essere in scena”.

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© Nan Goldin, Couple in bed, Chicago, 1977

Il volto di Nan tumefatto per le botte ricevute dal fidanzato e la vitalità contagiosa dei bambini, le feste nei piccoli appartamenti dove si balla si beve e si fuma e i momenti di solitudine, quando ci si guarda allo specchio, si sta buttati sul letto in stanze sfatte o ci si riposa dopo aver fatto l’amore, i corpi vicini le menti chissà dove; le immagini crude delle siringhe di droga e le effusioni e i rapporti, eterosessuali e omosessuali; gli scatti sotto la doccia, in cui ci si abbandona allo scorrere dell’acqua con un piacere che è anche bisogno di purificarsi e rigenerarsi, i corpi nudi, impudicamente reali, imperfetti, goffi, migliaia d’anni lontani dal nudo artistico o glamour, e le scene di sesso, esplicite e confuse: nulla da spartire con la spettacolarizzazione delle foto erotiche e pornografiche. Il mondo della Goldin vive in foto a colori (quando le foto serie erano in bianco e nero) e in interni, quasi sempre notturne, in un’atmosfera spesso allucinata, talvolta serena, sempre fraterna; diversi scatti hanno qualità formali seducenti per colore, ritmo e composizione, ma molti altri sono mossi, sfocati, sgrammaticati. Non c’è distanza, ma immedesimazione e presa diretta: siamo buttati addosso alle persone, nelle stanze e nei locali, partecipiamo dei loro sentimenti, siamo parte del flusso della loro vita.

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© Gianluca Di Ioia

Visitata la mostra, ho avvertito con forza il bisogno di non giudicare: è facile ergersi su un piedistallo e condannare quest’accozzaglia di promiscui drogati, al riparo di una nostra presunta normalità. A che serve? Ci sentiamo davvero migliori?

Nan Goldin è diventata un mito e diverse persone si sono ritrovate nelle sue foto, hanno scoperto qualcosa di sé, hanno preso delle decisioni sulla propria vita anche grazie a lei, forse perché la Goldin e la sua comunità hanno vissuto e pagato tutto in prima persona: moltissimi amici e amiche sono morti di droga o di Aids, lei stessa ha attraversato un lungo e accidentato percorso di disintossicazione. Oggi quel mondo non esiste più, ci restano le sue foto, testimonianza e dichiarazione d’amore: chissà se basta…