Cara Alley,
Sono mamma di un bimbo di poco più di un anno. Quando stai per diventare genitore sai benissimo che la tua vita cambierà definitivamente, anche se non sai mai davvero quanto.
Chiariamo subito una cosa: non mi sono mai pentita d’aver avuto un figlio: amo profondamente il bambino che mi è stato donato e il problema non è lui. Mi tocca premetterlo, perché quando faccio certi discorsi mi è persino capitato di sentirmi dire che certa gente – suppongo io – dovrebbe prendersi un gatto invece che fare figli.
Questa è la premessa, l’amore.
Ma se l’amore per un figlio è grande, altrettanto grandi sono le delusioni sociali, civili, culturali in cui ci si imbatte quando si diventa madri.
Il lavoro. Comincio col tasto più dolente di tutti. Io ho perso il lavoro poco prima di scoprire della gravidanza. Non posso dire di essere stata licenziata per la gravidanza in sé, ho avuto purtroppo un altro tipo di spiacevole esperienza. Però non facciamo finta che il problema non esista, per favore. Piccola statistica casalinga: diciamo che su una trentina di mamme che ho conosciuto da quando bazzico l’ambiente ce ne sono quattro che sono state gentilmente messe alla porta dopo la nascita del figlio. Con la gentile buona uscita del caso, certo. Ma sono pazza io a pensare che non sia giusto né accettabile?
Ha fatto scalpore qualche tempo fa la notizia di una donna assunta in un’azienda mentre era in gravidanza. Bello, bellissimo. Ma io vorrei che facesse scalpore la notizia di una donna che perde il lavoro per la gravidanza. Invece è normale. È normale che una neomamma venga considerata un peso per l’azienda, perché sicuramente chiederà permessi e ferie per prendersi cura del bimbo. È normale che se fai la proposta giusta a questa neomamma probabilmente ti “scavalli” il problema, perché le farà gola il pensiero di starsene a casa un anno a crescere suo figlio invece che farlo crescere a nonni e tate. È normale che questa mamma accetterà la proposta, anche perché che ci sto a fare in un’azienda che mi sta dicendo di non volermi? Tanto poi un lavoro lo trovo.
È normale invece che a un colloquio di lavoro il fatto di avere più di 35 anni e un bimbo piccolo ti faccia essere meno allettante di un broccolo scondito.
Amica neomamma, non illuderti. Inizialmente, soprattutto durante la gravidanza e i primi mesi di vita del bambino, avere tempo per sé è nutriente e rilassante, ma a un certo punto ti renderai conto che non hai nient’altro che la tua vita famigliare. Anzi, la vita famigliare, non la tua. Un’inesauribile fonte di affetto, sostegno, serenità. Ma anche di incombenze, doveri, responsabilità. Con la scusa che sarai a casa, delegare diventerà sempre più difficile. Anche nelle più idilliache situazioni in cui il papà c’è, è presente (non dirò mai “aiuta”, non cadrò nel tranello), ci sarà sempre una grossa differenza fra il suddividersi i compiti e suddividersi le responsabilità. E questo non lo dico io, lo dice Jesper Juul, che è un terapeuta famigliare danese (ehi ricordate la Danimarca? Il paese della felicità famigliare?…)
Da quando sono mamma i miei compiti sono raddoppiati e le mie responsabilità triplicate. Prima avevo un lavoro gestionale, impegnativo, ma a un certo punto uscivo e finiva lì. Adesso è come essere costantemente al lavoro, h24. Ci sono momenti in cui ammetto che mi sento sopraffatta e non mi era mai successo. Una volta una mia amica mamma lavoratrice mi ha detto: “Quando sono al lavoro a volte ho la sensazione di perdere tempo, con tutte le cose che avrei da fare”.
E allora? Cosa volete insomma mamme? Se lavorate non va bene e se vi lasciano a casa nemmeno? Se avete voglia di fare questa domanda, vi prego, è tempo che vi interroghiate sinceramente su un punto: a voi questa società va davvero bene così com’è? Vi soddisfa? È la migliore società che riusciate a immaginare? Io no. Io non ho più voglia di sentire le Istituzioni riempirsi la bocca con paroloni come “uguaglianza” e “pari diritti” (senza peraltro riuscire mai a concretizzarli), invece che rendersi conto che è il riconoscimento delle differenze a dare l’avvio a una struttura sociale veramente giusta. Bisogna aprirlo questo dibattito, non fare fantomatiche campagne sulla fertilità, la sappiamo la differenza fra un ovaio e un terreno a maggese.Se e quando verrà davvero aperto questo dibattito, spero che mi potrò appoggiare a validi alleati.
Ma non è stata rincuorante l’ulteriore scoperta che ho fatto dopo essere diventata madre. Il femminismo sente la necessità di interrogarsi sulla categoria della madre, rivendicando il diritto a non esserlo (per carità sacrosanto) ma troppo spesso utilizzando forme violente di disconoscimento sociale nei confronti di chi i figli li ha voluti e li ha fatti. Diventare madre pare mi abbia fatto aderire a un ruolo voluto dal patriarcato per mortificare la donna che invece non avrebbe per natura nessun istinto materno, se non quello instillatole subdolamente dai patriarchi brutti e cattivi. Ho provato a spiegare a queste donne che istinto materno e desiderio di maternità non sono la stessa cosa.
L’istinto materno non rientra nella categoria dell’irrazionalità, è fisiologico e dirò anche sacrosanto, è la salvezza, è l’unica cosa che ti permette di sopravvivere quando lo tsunami della maternità ti travolge con una violenza che chi non è stata madre non può immaginare. Mi spiace dirlo, ma è così.
Prima di essere madre non sopportavo le donne che mi guardavano come se custodissero un segreto e mi dicevano che avrei capito solo diventando una di loro. Ma adesso sono costretta ad ammettere che avevano ragione. Che i modi in cui la maternità ti cambia e ti sconvolge non sono solo felici, fanno male, sono dolorosi, a volte ti fanno sentire anche una disperazione che prima non avresti mai sospettato. L’istinto materno non è altro che una benedetta sensazione generata dal fisiologico cocktail di ormoni che pervade la donna dopo il parto, è qualcosa di reale, che non solo salva noi donne dalle ansie e dalla tristezza che ci affondano nel post parto, ma andrebbe totalmente rivalutato, oggi, in questa società che tratta le gravide come malate e il parto come malattia, il neonato come un potenziale malato e la puerpera come un’incapace che non è nemmeno in grado di slacciarsi il reggiseno per allattare. Anche questa è violenza nei confronti di noi donne, anche questo ci parla di una società che in ogni ambito si appropria del nostro corpo togliendoci consapevolezza, capacità, serenità.
È avvilente, davvero, amiche donne, vedere il dibattito ridotto a “tu non cambi pannolini non puoi capire/hai ragione ora scusa devo andare a farmi un aperitivo”. Ho letto davvero uno scambio di battute simile a questo in calce a un articolo inerente a mamme e lavoro, e non mi sorprenderei se il tenore dei commenti a questa lettera fosse simile. Ma io ve lo ripeto: è avvilente. Se ci riduciamo a questo ricreiamo un microcosmo sociale basato sulla discriminazione, sull’ingiustizia, sulla disuguaglianza.
Talvolta cerco di ricordarmi che un figlio non lo fai necessariamente per soddisfare il tuo ego. Se ti fermi a pensarci seriamente ti rendi conto che è un dono che stai preparando per la società stessa. Per questo essere abbandonata dalla società mi fa così rabbia. Non mi basta avere guadagnato il distintivo di madre per essere soddisfatta. Non mi basta il bonus da qualche centinaio di euro per comprare i pannolini quando non posso sperare in un lavoro da poter conciliare con il mio secondo lavoro, la famiglia. Non mi basta perché se mi bastasse mi sarei rassegnata. Invece non mi rassegno a questa solitudine, voglio continuare a pensare che se salire su un tram col passeggino è impossibile e se la gente continua a parcheggiare davanti agli scivoli dei marciapiedi, il problema non è solo mio, ma ci riguarda tutti.
A volte però ho la sensazione che diventare madre sia come entrare in una specie di setta i cui membri sono protetti, ma non contano nulla: non prendono decisioni, non possono avere opinioni. Stanno dentro a una bolla di sapone, da cui vedono tutto ma non partecipano a niente.
E allora ho scritto questa lettera.
Letizia Giangualano