“Quel tempo che non passi oggi con i tuoi figli, è lo stesso che desidererai un giorno se ci dovessimo separare”. Lo scriveva pochi giorni fa una persona cara, facendo riferimento al marito, e colpiva al centro del rapporto che divide le madri dai padri. Perché sarebbe il caso di ammetterlo, la distinzione fra “tempo di qualità e tempo di quantità”, cavallo di battaglia di molti padri, è una giustificazione delle assenze. Gli uomini sono ancora fortemente votati a un ruolo suppletivo e ludico, sono i breadwinner e si curano dei figli prevalentemente lavorando. D’altra parte è così che si ritiene debba funzionare.
Le madri invece apprendono la cura e la fanno propria nei primi mesi di vita dei figli. Sono a casa con il loro mentre tutto il resto del mondo fuori scorre, poi tornano al lavoro da madri, per qualche tempo a orario contenuto per “l’allattamento”. Dopo questo continuano a essere madri, graniticamente, in famiglia e sul lavoro. Sono loro che avranno sviluppato sensibilità che le costringeranno a stare a casa per le febbri e le enteriti; sono loro che rinunceranno a ore di lavoro per le feste a scuola; sono loro che saranno, stimate o meno stimate, “madri lavoratrici”.
Poi ci sono i padri, quelli del calcetto il lunedì sera o quelli separati che invocano, temendolo forse, maggior tempo con i figli. Si’ perché la cura spiccia dei figli è raccontata come un qualcosa di alieno all’universo maschile e quando avviene si grida al miracolo. Su questi fatti straordinari – un pannolino cambiato, qualche pappa preparata e servita – viene costruita una falsa mitologia del padre eroe, del padre che fa e che vorrebbe fare, del padre separato al quale sono stati sottratti i figli e che “è ora di cambiare la legge”.
Quale legge? Quella dell’affido condiviso che – realisticamente e purtroppo – colloca in prevalenza i figli a casa con uno dei genitori, la madre. Perché la maternal preference dei tribunali italiani non è un’aberrazione, ma la lettura della società. I padri troppo spesso rivendicano tempo e cura solo quando perdono la quotidianità con i figli, ha ragione la mia amica.
Affari dei padri? No, affari di tutti. Delle donne che per fare le madri rinunciano spesso ad aspetti consistenti della loro vita, che sia la carriera, il bowling o i rave party. Dei figli che crescono delle madri e che nei padri vedono soprattutto l’autorità trombona o la complicità svagata e ridanciana. Della società tutta e del sistema economico che patiscono l’assenza delle donne eppure le ripudiano perché madri e quindi indaffarate a fare altro.
C’è bisogno di una norma che acceleri il cambiamento culturale, si chiama congedo di paternità, deve essere obbligatorio e misurato in mesi. Però servono anche donne che vogliano cedere una parte della loro maternità – congedo e ruolo – per se stesse e per un futuro meno scontato e balordo.