Consolare una madre non è un compito facile. E lo è ancora meno se quella madre attende da mesi alla finestra l’arrivo di un figlio che si è perso in mare, o è rinchiuso in chissà quale prigione in mezzo al deserto. Eppure Alessandra Ballerini fa proprio questo: consola e difende gli “ultimi”. Da anni, come avvocata civilista, si occupa di diritti umani e immigrazione, anche presso varie associazioni, Ong e sindacati. La ragione? “Un modo – spiega lei – per sentirsi meno soli. Perché far valere i diritti di chi conta poco o niente è una lotta impari che ti fa sentire sempre fuori posto”. È necessario quindi legarsi, fare rete e, persino: “diventare una sorta di famiglia come è avvenuto nei giorni scorsi con tutte le persone che hanno lavorato per la liberazione di Gabriele Del Grande”.
Alessandra Ballerini è infatti l’avvocata del blogger e regista italiano rientrato in Italia lo scorso 24 aprile dopo essere stato fermato (il 10 aprile) da agenti in borghese nella regione di Hatay e trattenuto in isolamento nel centro di detenzione Ggm di Mugla. Ma Ballerini segue anche i casi di Andy Rocchelli, il fotoreporter ucciso il 24 maggio del 2014 mentre si trovava in Ucraina per documentare la crisi del Donbass, e Giulio Regeni, il ricercatore italiano trovato morto, quindici mesi fa, lungo la strada che collega Il Cairo ad Alessandria. Ed è proprio a fianco dei genitori di Andy Rocchelli che la giurista ha partecipato al Festival dei diritti umani di Milano per ricordare, in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa, che “le violazioni dei diritti umani riguardano tutti. Non è possibile abbassare lo sguardo e nemmeno voltarsi dall’altra parte”.
Perché hai deciso di occuparti di diritti umani e di immigrazione?
L’attenzione per i diritti umani nasce dalla mia “educazione sentimentale” e quindi da tutto ciò che mi hanno trasmesso i miei genitori con le loro idee e con le loro scelte di vita. Ho iniziato però a occuparmi di immigrazione quasi per caso. All’inizio della mia carriera mi imbattei nel caso di un cittadino ecuadoriano che viveva da molti anni a Genova e che, a causa della legge Turco-Napolitano, rischiava l’espulsione. Io lo aiutai a fare ricorso e vincemmo la causa. Il risultato fu che il mio studio venne invaso dagli ecuadoriani (a Genova c’è la comunità più numerosa d’Europa ndr.) che avevano bisogno di assistenza legale. Ricordo che quando ho iniziato ad aiutare quelle persone, tutto quello di cui mi ero occupata fino a quel momento mi è sembrato d’un tratto incredibilmente noioso.
Qual è stata l’esperienza lavorativa che ti ha segnata di più?
Tra le esperienze che mi hanno segnata di più c’è il G8 di Genova. Per me, che come giurista ho sempre creduto nelle istituzioni, è stato infatti sconvolgente vedermi puntare contro un’arma o ricevere minacce di morte da una persona in divisa solo perché cercavo di mostrare il mio tesserino da avvocata. Si è trattato di un evento che ha stravolto molte mie idee e concezioni, sia come giurista, sia come persona. Poi però è arrivato Giulio Regeni…
Perché il caso di Giulio Regeni ti ha toccata così tanto?
Chiunque si avvicina a lui, alla sua straordinaria famiglia e alla loro tragedia non è più lo stesso. Quella di Giulio Regeni è, infatti, una vicenda che da un lato mostra tutta l’atrocità e il male del mondo, mentre dall’altro rappresenta quasi un risarcimento di quello che è avvenuto a Genova nel 2001. Intorno alla figura di questo giovane straordinario e alla ricerca della verità riguardo alla sua morte si stanno, infatti, raccogliendo la parte migliore sia della società civile, sia delle istituzioni.
Cosa pensi riguardo alle polemica sulle Ong accusate di collaborare con gli scafisti?
Sono amica di molte persone che si occupano di salvataggi in mare e ho una visione molto chiara del loro lavoro. Il vero problema, secondo me, è che si tratta di testimoni scomodi di ciò che avviene al largo delle nostre coste. Ed è questo il motivo per il quale si vuole delegittimarli e toglierli di mezzo. Per quanto riguarda le accuse puntuali che sono state rivolte alle Ong posso confermare che nessun loro intervento avviene senza l’approvazione della guardia costiera. Inoltre è bene ricordare che queste organizzazioni si occupano di salvare persone che dovrebbero essere, invece, messe al sicuro dagli Stati. La solidarietà è, infatti, un dovere inderogabile previsto dall’articolo 2 della nostra Costituzione, e non un comportamento criminale come alcune ordinanze (vedi quella del sindaco di Ventimiglia – recentemente revocata – che vietava di dare da mangiare ai profughi) cercano di far passare.
Ma esiste, secondo te, una soluzione al problema dei trafficanti?
Se si vuole togliere di mezzo questa mafia e con lei anche il dolore, le torture e le violenze che tutti i migranti, senza esclusione di età o sesso, continuano a patire, bisogna consentire i canali umanitari e quindi delle vie legali di immigrazione. Ma sai qual è il paradosso? L’Italia sarebbe lo Stato che più di ogni altro dovrebbe farsi promotore di questa soluzione perché, unita al diritto di asilo europeo, allenterebbe la pressione sul nostro Paese e spingerebbe i migranti a stabilirsi negli altri stati dell’Unione. Tuttavia c’è una grande ottusità politica e il fatto di essere perennemente in campagna elettorale non aiuta: polemizzare sull’immigrazione è, infatti, un ottimo catalizzatore di voti.
Il Papa pochi giorni fa ha detto che alcuni campi per rifugiati sono simili a dei lager. Come risposta Salvini ha passato il fine settimana nel Cara di Mineo per far vedere invece quanto stanno bene i migranti. Dove sta la verità? Come è possibile farsi un’idea chiara in questo continuo contrasto di voci?
Bisognerebbe vedere le cose di persona, documentarsi e non fermarsi alle informazioni che si trovano sui social network. Da questo punto di vista penso che anche i media abbiano una parte di responsabilità. Spetta a loro infatti spiegare perché le persone partono, perché prendono una barca sgangherata invece di un comodo aereo. E invece raramente leggo o sento in tv qualcuno che racconti che, ad oggi, non è possibile ottenere un visto di ingresso per diritto di asilo. È come se l’Ue dicesse ai migranti: “prima dimostrami che riesci ad arrivare qui senza morire e poi io ti lascio entrare”.
Secondo te sul caso Regeni arriverà qualche risposta?
Le risposte devono arrivare perché noi non accetteremo un esito diverso. Sono consapevole che si tratta di una strada lunga ma ognuno di noi è disposto a tutto per ottenere delle risposte. E per ognuno di noi non intendo solo me e i genitori di Giulio, ma anche tutte quelle persone che da 15 mesi espongono uno striscione o indossano un braccialetto giallo con la scritta “Verità per Giulio”. Si tratta di una lotta collettiva che siamo determinati a vincere combattendo prima di tutto il silenzio e la paura.