“Le posso chiedere di chiamarmi ministra?”. La ministra Valeria Fedeli ha apostrofato un giornalista con queste parole durante una conferenza stampa. Nel servizio delle Iene con Laura Boldrini, quest’ultima riprende più volte l’intervistatrice chiedendo di essere chiamata “La presidente” e non “Il presidente”.
Sono solo due esempi di come donne con cariche pubbliche cercano di affermare una nuova consuetudine. Che, per altro, è anche “certificata” come corretta dall’Accademia della Crusca, che spiega così le resistenze di fronte all’uso di declinazioni al femminile di certe professioni:
“Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche”.
(In questo caso la risposta a un quesito, come precisa un lettore, è scritta da Cecilia Robustelli, ma diversi autori dell’Accademia sono tornati sul tema nell’ultimo decennio)
Quindi avvocata, ingegnera, ministra e così. Anche se sono ancora molte le donne che preferiscono essere definite la maschile. D’altra parte storicamente ci sono esempi illustri: Susanna Agnelli preferiva essere chiamata senatore e non senatrice; Nilde Iotti e dopo di lei Irene Pivetti preferivavo “Il presidente”, così come Susanna Camusso preferisce “segretario generale”. E la rivendicazione del maschile, spesso da parte di donne che si sono battute strenuamente per la parità dei generi, è forse cadere nel tranello di una cultura costruita dall’uomo e sull’uomo, in cui i titoli al maschile sembrano avere un’autorevolezza maggiore rispetto alla declinazione al femminile.
La questione sembra essere una peculiarità tutta italiana, considerato che all’estero la declinazione delle professioni al femminile sembra ormai entrata nell’uso comune. Così in Francia, ad esempio, si usa “la ministre”, “la secrétaire générale”, “la présidente”, l’”envoyée extraordinaire”, “la directrice”, “la juge”, “la conseillère”. In Germania la donna ministro è «Ministerin», cioè « ministra », anche se mettendolo in Google traslator avrete la traduzione ministro perché il corrispondente femminile, in italiano, non è contemplato. E ancora: Angela Merkel è « Kanzlerin » ovvero «cancelliera». In spagnolo, poi, «ministra» è ormai sdoganato e per una presidente è stato coniato un temine apposito sebbene si potesse semplicemente rendere femminile il termine con l’articolo. E così è nata «presidenta », avvallato anche dalla Reale Accademia spagnola della lingua.
In inglese, hanno sempre tutti pensato che il problema non esistesse: the minister, mayor, phisician, chancellor, journalist si possono usare per entrambi. Come si distingue? Aggiungendo precisazioni come lady doctor, woman journalist, female filmmaker è così via. Ma questo non piace più alle donne. Perché non precisare che il dottore è un uomo e farlo quando è una donna? Indica ancora una volta una forte connotazione delle professioni. Da qui parte la campagna di Blush.me: le professioni non hanno genere, #KaamSeMatlabRakh.
Ci sono lingue in cui l’emancipazione passa per le declinazioni di genere, e lingue in cui rivendicare il neutro è l’unica via alla parità. Ma dalle parole non si può proprio prescindere.