Due figli, due papà: siamo una famiglia. Ma c’è anche un’altra possibile versione: due figli, un papà (biologico), un uomo che vive con papà perché lo ama, perché ama noi che siamo i figli naturali del papà (biologico), noi che siamo un po’ anche figli suoi e lo amiamo, ma non lo si può dire in giro perché poi qualcuno potrebbe arrabbiarsi. Siamo una famiglia?
Qualche giorno fa, la Corte di Appello di Trento ha riconosciuto a due uomini, Lorenzo e Riccardo, la possibilità di essere considerati entrambi padri di due bambini nati all’estero da maternità surrogata. E’ la prima volta che in Italia si riconosce un legame genitoriale non biologico a una coppia di uomini. Una decisione storica che ha anche dato vita a confronti meno estremi e probabilmente più costruttivi circa la regolamentazione della maternità surrogata o l’opportunità che il legislatore si adegui a una società in continua evoluzione. Una decisione che, tuttavia, non soltanto non è legge, ma potrà anche essere rimessa in discussione. Tuttavia, che sia confermata o meno, che dia impulso o no a un nuovo percorso normativo, è importante cercare di ricavarne una chiave di lettura, utilizzarla come strumento per capire cosa stia cercando di regolamentare.
Leggendo la notizia il mio pensiero è corso subito ai due bambini oggetto dell’Ordinanza così come ai figli di tutte le coppie omogenitoriali italiane. Cosa pensano o perlomeno, cosa penseranno quando si confronteranno con gli amici, i compagni di classe, con tutto il mondo che li circonda? L’unica risposta plausibile, l’unica che mi ha convinto, è stata che questi bambini si chiederanno: “siamo una famiglia oppure no? Ci considerano una famiglia?”. Credo che sia indubbio che i figli di Lorenzo e Riccardo ameranno i loro due papà tanto quanto potrebbero amare genitori di sesso diverso. Ai loro due papà dedicheranno le prime parole, con loro giocheranno e rideranno e li guarderanno con aria soddisfatta quando si alzeranno, traballanti, in piedi per la prima volta. Come si può pensare che non li possano amare? Mi viene alla mente un pezzo di Claudio Rossi Marcelli (papà arcobaleno per eccellenza) pubblicato sul suo blog de l’ “Internazionale”, qualche mese fa. A una madre che domandava se fosse giusto o sbagliato chiedere al figlio un opinione su di sé, il giornalista proponeva le risposte dei suoi tre figli (due gemelle di otto anni e un maschietto di quattro) a un divertente quiz dedicato proprio a capire come i genitori appaiono agli occhi della propria prole. Risposte limpide e schiette (condite dall’incredibile ironia di uno dei tre) che non mi hanno lasciato dubbi circa l’amore indiscusso per il proprio genitore.
Se l’amore non è in discussione, il problema per questi due bambini non potrà quindi che essere altrove, emanazione diretta di una società che decida di non riconoscerli o proteggerli al pari degli altri. Una società che non riconosca che la loro famiglia, seppur diversa, abbia la stessa dignità di tutte le altre. Per questo l’Ordinanza della Corte di Appello di Trento sancisce un principio importante, un principio che ricava dall’amore un riconoscimento giuridico e sociale: due figli, due papà, una famiglia. Fatevene una ragione.
E’ curioso allora che proprio a Trento, sede dalla Corte d’Appello in questione, si stia consumando, in questi giorni, una vicenda che va esattamente nella direzione opposta. La Giunta Provinciale di Trento (ai cui vertici siede Ugo Rossi, maggioranza PD) è in procinto di emettere delle Linee Guida che si occupano di affrontare iniziative anti-omofobiche nelle scuole (Trento è una provincia autonoma quindi ha poteri legislativi più ampi delle regioni a statuto ordinario, quasi al pari dello Stato) con un testo che, tuttavia ha scatenato accese polemiche, facendo letteralmente infuriare Paolo Zannella, Presidente del Comitato Arcigay locale. Prendendo le mosse da un’iniziativa di legge popolare contro l’omofobia del 2012, nata da una raccolta di ben 7000 firme e trasformatasi poi, a causa di ostruzionismi e rinunce, in mozione (2016), le Linee Guida definiscono gli ambiti di intervento anti-bullismo omofobico da attuarsi in orario scolastico (quindi ore curricolari). Il problema è che, di fatto, il testo stabilendo il principio della necessaria condivisione preventiva con le famiglie del programma educativo relativo a questo percorso, autorizza di fatto i genitori a non fare partecipare i propri figli alle lezioni presentando (trattandosi di ore curricolari) di una semplice e canonica giustificazione. “Mio figlio non partecipa” basterà scrivere. In sostanza un genitore (omofobico) potrà impedire ai propri figli di partecipare a lezioni durante le quali si insegna proprio quel rispetto per la diversità, necessario per combattere l’omofobia. Un po’ come consentire a genitori razzisti di evitare che i propri figli seguano lezioni che insegnano a rispettare e capire le altre etnie, o a genitori filo-fascisti di fare lo stesso per le lezioni sull’olocausto. Insomma, in poche parole un po’ come negare la funzione educativa della scuola.
Speriamo proprio che quando i figli di Lorenzo e Riccardo andranno la scuola non debbano vedere i compagni con cui studiano, chiacchierano e giocano ogni giorno, uscire, giustificati, dalla classe quando si parla proprio della loro famiglia.