Era il 2009 quando siamo partite con la predisposizione della proposta di legge sulle quote di genere nei consigli di amministrazione. Le donne, allora, erano circa il 6 per cento dei membri dei cda italiani; il tasso di occupazione femminile era del 46,4 per cento, il divario retributivo tra uomini e donne era del 5,5 per cento, solo per citare alcuni dei dati rilevanti in merito alla situazione femminile.
Oggi, le donne nei board sono quasi il 30 per cento, l’occupazione femminile rimane alla preoccupante percentuale del 48,2 per cento e il gender pay gap è persino aumentato, arrivando oltre il 6 per cento. Peraltro, ai vertici apicali quest’ultimo raggiunge livelli impressionanti: un capo-azienda uomo guadagna, infatti, quasi il triplo rispetto a una sua collega donna.
Questi dati suggeriscono due deduzioni: la prima è che le cosiddette “azioni positive”, cioè il tentativo di modificare, attraverso la legge, le disuguaglianze fondate sulla cultura condivisa, funzionano. La seconda evidenza è che i progressi nel campo della parità di genere, quando ci sono, avvengono troppo lentamente in mancanza di forzature di qualche tipo. Ho avuto piena contezza di quanta strada avesse da recuperare l’Italia quando mi sono trasferita a Bruxelles.
Prima di tutto, la distanza col cuore dell’Europa la si nota nel dibattito politico: a livello europeo c’è una maggiore consapevolezza del problema della disuguaglianza di genere, anche nella prospettiva della realizzazione di una crescita economica. In questi due anni ho incontrato tante associazioni che si occupano di temi legati all’empowerment femminile e alla parità: nella maggior parte dei casi si tratta di strutture molto organizzate, spesso focalizzate su un aspetto specifico, vere e proprie lobby che lavorano per i diritti delle donne in modo molto efficace. Lo stesso Parlamento Europeo è, da questo punto di vista, un’istituzione molto moderna e sta (lentamente, certo) passando da un approccio basato sulle politiche di genere a uno basato sull’inserimento della prospettiva di genere in tutte le politiche pubbliche. La Commissione, dopo un lavoro di due anni, dovrebbe pubblicare in primavera un pacchetto di misure legislative e non per migliorare l’equilibrio vita-lavoro (di tutti, non solo delle donne, altra importante innovazione di approccio che in Italia fatichiamo a sposare).
In secondo luogo, vi è una distanza enorme anche dal punto di vista della vita concreta, delle politiche family-friendly della città, nonostante io venissi da Milano che, sotto questo profilo, è considerata indiscutibilmente l’eccellenza italiana.
Un elemento in piena controtendenza, che ci trasforma da fanalino di coda a leader riconosciuti, tuttavia, esiste ed è proprio la legge sulle quote di genere. Sono molti i Paesi che vi si ispirano o vi si sono ispirati per la propria legislazione nazionale, soprattutto in virtù della previsione di sanzioni e della natura temporanea della legge, che le ha permesso di essere particolarmente efficace. Una normativa ambiziosa che la stessa Commissione Europea tenta di proporre dalla scorsa legislatura, purtroppo senza successo.
Un ottimo punto di partenza, però, non certo di arrivo: anche concentrandoci solo sui risultati da ottenere all’interno delle aziende, sono molte le sfide che dobbiamo ancora affrontare. Bisogna aumentare la presenza delle donne nei livelli di middle management, eliminare l’enorme disparità retributiva che esiste ai vertici delle società e trovare una soluzione per migliorare la diversità di genere anche all’interno delle aziende famigliari, non quotate e, dunque, escluse dal perimetro della Golfo-Mosca. Un’agenda ricca e ambiziosa, che possiamo realizzare continuando a lavorare insieme.