Siamo circondati quotidianamente da immagini – lo sappiamo –, migliaia e migliaia tra cui viviamo immersi come pesci nell’acqua. I pesci sanno di essere immersi? E noi riusciamo ancora a vederle queste immagini, a distinguerle per esempio dalla realtà?
Sono domande impegnative, certo, ma importanti, perché le immagini – ci piaccia o meno – sono e saranno sempre più una lingua da imparare e una moneta da scambiare, che dobbiamo conoscere per non farci fregare, per usarle e non esserne usati.
Un’esperienza affascinante a questo proposito ce la offre il fotografo e artista italo tedesco Armin Linke nella sua mostra L’apparenza di quel che non si vede (al PAC di Milano fino all’Epifania).
È una mostra inusuale, spiazzante, potremmo dire una mostra 2.0: non c’è un percorso predeterminato, niente foto tranquillamente incorniciate alle pareti, ma gruppi di immagini, stampate in vari formati e montate su pannelli di legno, distribuiti nelle stanze come in una scenografia teatrale che ci avvolge, invogliandoci ad attraversarla seguendo l’istinto e una sorta di ritmo, invisibile, ma che a poco a poco si rende percepibile. È un ritmo da musica jazz, che nasce dai diversi intrecci, echi, rimandi, strizzate d’occhio che si creano tra immagine e immagine, tra queste e gli ambienti, all’interno delle stesse luminose stanze del PAC e tra tutti questi elementi e un continuo commento sonoro di differenti voci. Già, perché questa mostra è una sorta di ipertesto, con una logica affine alla navigazione sul web e uno spiccato carattere multimediale. Linke ha selezionato circa 2000 foto dal suo immenso archivio e ha chiesto a pensatori che ammira, appartenenti ad ambiti culturali diversi, di scegliere immagini utili a presentare il loro pensiero: sono queste le voci che ascoltiamo in mostra e che organizzano le foto in isole tematiche, illustrate dalle riflessioni di Mark Wigley (teorico dell’architettura), dell’artista e teorico dei media Peter Weibel, del geologo Jan Zalasewicz, dell’artista Ariella Azoulay, di Bruno Latour (filosofo), Franco Farinelli (geografo), della storica delle scienze Lorraine Daston e della fisica Irene Giardina.
Secondo Linke non è più possibile oggi essere semplicemente un fotografo, la vita delle immagini scavalca sempre più confini e recinti e sollecita l’autore a diventare curatore e regista, a pensare come presentarle e allestirle per farle parlare, affidandosi anche ad altri sguardi e pensieri, capaci di cogliere nelle proprie foto quel che non si vede, quel che lui stesso non sospettava di avere colto.
Prendiamo la foto di uno stanzone colmo di bottiglie di acqua minerale in Uzbekistan, di cui inizialmente non capiamo il nesso con quelle vicine: Mark Wigley ci spiega come il semplice, quotidiano gesto di bere acqua minerale, nato in Europa e da qui diffuso negli Usa, sottintenda un rifiuto opposto alla società della condivisione, attraverso la decisione di usufruire di un prodotto commerciale e privato anziché usare la stessa acqua fornita a tutta la collettività dalla rete idrica. Da qui il discorso si sposta alle reti, di ogni ordine e tipo, che innervano le architetture, le città, le nostre società e ai legami e significati a esse connessi, facendo interagire architettura, urbanistica, ecologia ed economia. Questa foto non è la “bella immagine” che ci aspetteremmo in una mostra, ma proprio per questo ci fa capire che quel che chiamiamo qualità artistica ha a che fare anche con la ricchezza di significato che un’immagine può sprigionare, se opportunamente interrogata. Al di là di questo aspetto, che ha guidato la scelta dei vari teorici coinvolti nel progetto, quelle di Armin Linke sono immagini bilanciate, costruite su una trama geometrica ampia e articolata, in modo che lo sguardo possa andare sempre più a fondo, con un movimento lento: sono immagini non urlate, la cui discrezione richiede un ascolto attento, voglia di comprendere, di assaporare.
Completano la mostra due video: una bellissima testimonianza di Jacopo Gardella, figlio e collaboratore di Ignazio progettista del museo, che, con esemplare chiarezza e ambrosiano understatement, ci racconta la costruzione del PAC, facendoci davvero sentire l’anima di quest’architettura e il video Alpi di Armin Linke, già premiato alla IX Biennale di Architettura di Venezia.