Fatemi andare con estremo disordine. Phillip José Farmer è un autore di fantascienza abbastanza atipico: pur senza le capacità stilistiche di Ray Bradbury o la straordinaria inventiva di Philip Dick, è uno di quelli che ha portato questo genere negletto ad alcuni dei suoi limiti estremi. Il protagonista di uno dei suoi romanzi, un terrestre immortale che gira per l’universo cercando risposte alle grandi domande con un banjo, una civetta, un cane e una robot femmina innamorata di lui, visita un pianeta nel quale la popolazione porta in ogni cellula l’eredità dei propri antenati, dai più prossimi ai più lontani. Dato che ognuno degli avi reclama uno suo spazio, viene istituito un sistema di turni, per il quale ogni giorno un antenato diverso prende possesso del corpo.
Il punto è che una parte di noi uomini ha esattamente questo problema. Ci portiamo sulle spalle il fardello di figure paterne che sono state sostanzialmente identiche per millenni, ma sentiamo il dovere di essere i protagonisti e i promotori del cambiamento, partendo da noi stessi e per essere da esempio per i nostri figli. Il tutto avviene in un sistema che non favorisce questa operazione. La misera estensione del congedo di paternità obbligatorio a 4 giorni a partire dal 2018 non può essere il motore di una rivoluzione culturale di questo tipo. Così come la differenza di reddito tra uomini e donne è un freno costante: mia moglie Anna, laureata in relazioni internazionali a Ginevra, master alla London School of Economics, tre/quattro lingue parlate, ha più o meno lo stesso reddito mio, che ho la licenza classica e di lingue ne parlo due (compresa la mia). Assumere un ruolo nuovo, per me come per altri padri, al momento non è tecnicamente possibile, salvo in rari casi.
Ma le domande sono tante. Fino a che punto devo essere severo e fino a che punto permissivo? Cosa rappresento io rispetto alla mia compagna o moglie? In cosa ci distinguiamo agli occhi dei nostri figli, al di là delle caratteristiche fisiche? La completa intercambiabilità che pratichiamo quotidianamente è giusta? E questa intercambiabilità, che comporta la necessità di attenersi a schemi di comportamento piuttosto razionali e ammazza il concetto di ruoli assegnati, non rischia di annichilire un pezzo delle emozioni che portiamo nel rapporto coi nostri figli? In breve: che ruolo devo avere (ammesso che lo debba avere) e che modello devo rappresentare?
Abbiamo tre figli, dei quali il più grande si avvia verso un’adolescenza che promette di essere piuttosto turbolenta, e non ho ancora trovato una risposta definitiva a queste domande. Ma credo che anche questo faccia parte del gioco.
Alley Oop, con i partner Piano C e Maam, ha lanciato la campagna “Chi sono i papà?” per capire un po’ di più del cambamento in atto. Come? Con un sondaggio, che è possibile compilare online qui.