Mio figlio è un mammone? Evviva!!

IMG_2221“Che mammone questo bimbo!!!”

Una frase sentita tante volte, ultimamente. Non so perché però aldilà del sorriso di circostanza con cui ho risposto ogni volta quando la sentivo pronunciare, ho sempre sentito un fastidio di fondo che non riuscivo bene a decifrare.

Mammone definisce una persona, in genere un maschio, eccessivamente attaccata a sua madre. Si usa per definire quegli uomini che – fenomeno tipicamente italiano ma non solo – vivono tutta la vita da figli, senza mai diventare uomini autonomi rispetto all’ingombrante figura materna. Sono quelli per cui la compagna, moglie o fidanzata verrà sempre al secondo posto. Ecco, il fastidio derivava da lì, da quella tipologia maschile.

Ma che senso ha definire mammone un bambino di 18 mesi, in un’età in cui il processo di attaccamento si sta ancora compiendo? E come mai non esiste un termine analogo per le bimbe “troppo attaccate” alla mamma o al papà? Anzi, se una bimba mostra un attaccamento speciale al suo papà viene guardata con estrema tenerezza, così come il papà. Trattamento analogo non viene riservato alla mamma del “mammone” che, anzi, subisce il sottile rimprovero di essere lei la causa del comportamento sbagliato del figlio.

E da qui mi sono venute altre domande: che vuol dire che un bambino (o una bambina) è troppo attaccato/a alla mamma o al papà? E perché siamo così contenti quando bambini molto piccoli si mostrano super indipendenti. sappiamo come funziona davvero l’attaccamento?

IMG_2222Per favorire l’autonomia dei bambini, è necessario che essi sperimentino una sana dipendenza dalla figura di riferimento (che generalmente è la madre ma può essere anche il padre o chi si occupa prevalentemente del bambino). Più la figura di attaccamento costituisce un punto di riferimento forte e sicuro, più il bambino pian piano inizierà ad esplorare il mondo con maggiore sicurezza e autonomia. E’ la famosa ‘base sicura’, quella che una volta interiorizzata, permette la crescita dell’autonomia. E’ il porto sicuro in cui rifugiarsi, a cui volgere lo sguardo mentre ci si allontana. E la modalità di questo attaccamento sarà quella che definirà poi il modo di relazionarsi nel futuro: cioè quello che abbiamo appreso nelle relazioni primarie è quello che tenderemo a riproporre nella nostra vita da adulti. L’attaccamento primario si sviluppa nei primi tre anni di vita del bambino, in questi primi tre anni cioè si deve creare un forte legame di dipendenza che permetta di iniziare ad esplorare. Non serve nessuna ‘spinta’ di allontanamento verso l’autonomia, è un processo di evoluzione che accade da sé, è il bambino che da solo inizia ad esplorare il mondo, in tutti i sensi.

E allora, forse, dobbiamo stare attenti alle facili definizioni, ai timori di creare adulti “mammoni”: il modo migliore per far crescere un uomo che non si stacca da sua madre è quello di fornirgli un modello di attaccamento insicuro e ansioso proprio nei primi anni di vita, quando invece il bambino ha bisogno di sperimentare la dipendenza e la disponibilità costante della figura materna. Sono invece magari proprio i rapporti ansiosi, ambivalenti, con madri o padri (o figure di riferimento) che magari mandano messaggi confusi e contrastanti, che cercano nel rapporto con i figli di colmare dei vuoti o soddisfare dei bisogni a creare maggiori problemi alla crescita dell’autonomia. Attenzione, quindi, a spingere bambini troppo piccoli o non ancora pronti verso un’autonomia che non sanno ancora gestire, perché questo sì può creare insicurezza.

Insomma, ho ancora un bel po’ di tempo prima di iniziare a preoccuparmi di avere un figlio “mammone”!