Un potenziale slancio economico di oltre mille miliardi di dollari. Tanto vale la riduzione del numero di giovani non occupati, non scolarizzati o non coinvolti in programmi in formazione professionale (NEET) ai livelli attuali della Germania. L’Italia, poi, è tra i paesi con il potenziale maggiore: pari all’8-9% del Pil. I dati emergono dallo studio Young Workers Index di PwC, che analizza i livelli di istruzione, occupazione e formazione professionale dei giovani di 15-25 anni in 35 paesi OCSE
Nella classifica generale l’Europa non se la cava affatto male a occupa i vertici della classifica grazie a Svizzera, Germania ed Austria nelle prime tre posizioni, seguite da Islanda, Norvegia e Danimarca. Gli Stat Uniti, invece, rientrano nella top 10 per la prima volta dal 2006. Neanche a dirlo, L’Italia rimane al fondo della classifica e prprio per questo potrebbe beneficiare, più di altri Paesi, di questo potenziale. Se, infatti, dalla riduzione del numero di giovani tra i 20-24 anni non iscritti a scuola, non occupati e non in formazione professionale (NEET), gran Bretagna, Stati Uniti e Francia potrebbero guadagnare un 2-3% di Pil, per l’Italia si parla di più del doppoi, come per Turchia, Spagna e Grecia.
Nell’ultimo decennio i Paesi che hanno fatto meglio sono Israele, Lussemburgo e Germania, mentre i paesi del Sud Europa come, appunto, Italia, Spagna e Grecia cercano faticosamente di recuperare dopo l’avvio della crisi finanziaria. Ma come hanno fatto i Paesi più virtuosi? In particolare i tre paesi al vertice – Svizzera, Germania ad Austria – hanno saputo mantenere bassi livelli di disoccupazione giovanile dopo la recessione globale, un risultato dei sistemi educativi che promuovono formazione professionale ed apprendistato, ed hanno consentito di minimizzare la componente di giovani rimasta esclusa dal mercato del lavoro.
“Nel nostro studio abbiamo identificato tre leve chiave che caratterizzano il mercato del lavoro nei paesi con le migliori performance. Innanzitutto, un sistema educativo duale come quello tedesco, che combina educazione scolastica e formazione professionale così da offrire molteplici opzioni per i giovani nella loro transizione al mondo del lavoro. Secondariamente anche un differente approccio da parte delle aziende rispetto all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, con iniziative come brevi esperienze professionali, mentoring e consulenza mirata a supporto dell’engagement dei giovani e della loro preparazione. Infine, anche l’attenzione all’inclusione sociale attraverso forme di recruiting innovative è importante per mitigare le barriere che più ostacolano l’ingresso nel mondo del lavoro di giovani provenienti dai contesti socio-economici meno avvantaggiati” commenta Francesco Ferrara, Partner di PwC.
E in Italia cosa possiamo fare? Forse per studiare una soluzione bisognerebbe partire da chi sono i neet. In Italia ci sono due milioni e mezzo di giovani (di età compresa tra i 15 e i 29 anni) che non fanno nulla, secondo il rapporto dell’Ocse. Il tasso di neet (sul totale della popolazione giovanile) nel 2007 era del 19,5% (quattro punti al di sopra della media Ocse, 13,6%) ed è salito l’anno scorso al 26,9 per cento. Peggio di noi c’è solo la Turchia (al 29,8%), mentre il divario rispetto alla media Ocse (14,6%) è passato a oltre 12 punti.
In Italia, poi, abbiamo un’altra peculiarità: oltre sei giovani mamme su dieci sotto i 30 anni rimangono a casa e rientrano nella schiera dei Neet, secondo ll’Istat. Le neomamme sono inoltre oltre metà di tutti i giovani inattivi che non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare (complessivamente 521 mila persone). L’incidenza dei Neet tra i giovani papà, al contrario, si ferma al 14%, sotto la media complessiva del 22,3%. I tre parametri individuati da Pwc non sarebbero, quindi, sufficienti. Le mamme hanno esigenze specifiche, che non possono essere risolte con qualche asilo nido in più. Occorre un piano organico che crei un sistema fertile perché le neomamme possano lasciare le mura di casa per entrare nel mondo del lavoro. E forse a conti fatto converrebbe a tutti: investire in welfare, strutture per l’infazia e detrazioni sulle spese di cura e allo stesso tempo portare a termine in tempi rapidi la legge sullo smartworking e magari anche la proposta su un congedo di patternità obbligatorio più lungo dell’attuale giorno, riconosciuto oggi. Troppo? Forse. Ma vale 8/9% di Pil. Fate voi i conti.