L’arminuta e Accabadora, storie di maternità non convenzionali

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Se ne ne stava seduta su una poltrona con la schiena dritta a dimostrare i suoi anni di danza classica. Era bionda, forte del suo voto di maturità e della scelta dell’università. Con quella famiglia, tutta bruna, non aveva nulla da spartire e lo diceva il suo modo distaccato e cortese di rivolgersi a loro, raccontando le novità dell’ultimo anno. Noi eravamo entrate solo a bere e una volta fuori dalla porta la mia amica mi disse: “è mia sorella, ma non vive con noi. Vive con gli zii a Roma. Ci viene a salutare quando l’estate torniamo tutti al paese”. Io avevo appena finito le medie e credevo ancora che il legame madre figlia fosse indissolubile. Feci tante domande ed ebbi poche risposte. Dopo la sorella bionda erano arrivati in famiglia la mia amica e suo fratello. La mamma non c’è la faceva a stare dietro a tutti e così gli zii presero la sorella con loro, portandola a vivere a Roma da Brescia. D’altra parte gli zii non avevano figli.

Con gli anni scoprii che in Abruzzo poteva capitare. Famiglie numerose e famiglie senza figli trovavano una compensazione. L’usanza era nata per dare ai coniugi senza figli un bastone per la vecchiaia, qualcuno che si prendesse cura di loro in cambio poi dell’eredità.    L’affigliolamento, così lo chiamavano, avveniva quindi anche in età adulta del “figlio”, più spesso figlia, che poteva dire la sua. Poi è arrivato il desiderio di maternità, che, in mancanza di soluzioni della scienza, arrivate più tardi, e di fronte alla burocrazia delle adozioni, ha trovato una via propria rifacendosi alla tradizione.

L’arminuta” è la storia abruzzese di un affigliolamento per desiderio di maternità, finito male. Donatella Di Pietrantonio, di professione dentista pediatrico, racconta di una ragazzina “restituita” a 13 anni, quando non conosceva più l’altra sua madre. Un’adolescente che si trova all’improvviso defenestrata dalla sola vita e famiglia che ha conosciute per tornare al paese, con la nidiata di figli dei suoi genitori naturali. Uno sconvolgimento all’apparenza incomprensibile anche per i silenzi di tutti attorno a lei.

La storia di una ragazzina che guardata in negativo è la storia di due mamme mancate e mancanti entrambe, ognuna a modo proprio. Due mamme che sono l’antitesi del mito della maternità fatto di cura, devozione, sacrificio, coraggio, abnegazione, ma soprattutto amore. Un amore materno di cui non si trova traccia nelle pagine del libro, fagocitato dall’incapacità di pensare all’altro e sentirsene responsabile.

L’arminuta”, che ha vinto il premio Campiello 2017, mi ha fatto tornare in mente “Accabadora” di Michela Murgia (2009). Altra storia di “affigliolamento”: la più piccola di quattro figlie di una vedova, presa in casa da Bonaria Urria, sarta zitella del paese. Altra “parentela artificiale” finita male, anche se Maria torna a occuparsi dell’anziana come previsto e non per l’eredità. Bonaria Urria, che madre per natura non è, in realtà è più materna delle due raccontate da Di Pietrantonio. In entrambi i casi, però, resta il mistero di una pratica incomprensibile ai più, dare via un figlio. Mia madre racconta che è capitato anche a lei, che le chiedessero una figlia. Il mio turno, maggiore delle tre, venne negli Stati Uniti nel 1973: una coppia di amici dei miei nonni, che non riusciva a far figli, mi chiese in affigliolamento. Tanto i miei erano giovani e potevano averne altri. Inutile dire che furono cacciati fuori casa e io restai alla mia famiglia. E ringrazio ogni giorno che sia andata così.

Una piccola nota stilistica: “L’arminuta” è un bicchiere di acqua fresca in una giornata d’estate. “Accabadora” è un blended scotch whisky. Possono non piacerti i super alcolici, ma non puoi dire che non sia di qualità.

L’arminuta, Donatella Di Pietrantonio – Einaudi 2017 prezzo 17.50 euro

Accabadora, Michela Murgia -Einaudi 2009 prezzo 18.00 euro

  • Marianna |

    Da leggere entrambi. E riflettere.

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