C’è un solo punto del contratto di governo M5S-Lega in cui le donne vengono menzionate: è il 18esimo, alla voce “politiche per la famiglia”. Quello in cui si sostiene necessario «rifinanziare gli Enti Locali dando priorità al welfare familiare (come ad esempio il sostegno per servizi di asilo nido in forma gratuita a favore delle famiglie italiane, le politiche per le donne, per gli anziani e la terza età, il sostegno alle periferie), in un’ottica di sinergia tra tutte le componenti dello Stato per raggiungere gli obiettivi di sviluppo economico di qualità e per far uscire il Paese dalla crisi economica».
Secondo il testo, su cui il tavolo tecnico ha raggiunto il pieno accordo, «occorre introdurre politiche efficaci per la famiglia, per consentire alle donne di conciliare i tempi della famiglia con quelli del lavoro, anche attraverso servizi e sostegni reddituali adeguati». E già qui nascono le perplessità: davvero la conciliazione famiglia-lavoro è un problema soltanto femminile? È da anni, ormai, che l’Unione Europea ha sancito come il tema della conciliazione debba riguardare tutti. «La conciliazione tra vita professionale privata e familiare deve essere garantita quale diritto fondamentale di tutti, nello spirito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con misure che siano disponibili a ogni individuo, non solo alle giovani madri, ai padri o a chi fornisce assistenza», ha messo nero su bianco il Parlamento Europeo, nella risoluzione approvata il 13 settembre 2016. Tanto che il termine stesso appare obsoleto. Meglio, molto meglio, sarebbe parlare di «condivisione» dei ruoli e dei compiti all’interno dei nuclei familiari, unica garanzia di parità dei diritti. Altrimenti, come in Italia sappiamo bene, la “conciliazione” si risolve soprattutto nella “scelta” da parte delle donne di lasciare il lavoro. Una decisione mortifera per l’economia europea: come certifica la Commissione nella comunicazione a Europarlamento, Consiglio, Comitato economico e sociale e Comitato delle regioni datata 26 aprile 2017, «le perdite economiche dovute al divario di genere nei livelli di occupazione ammontano a 370 miliardi di euro l’anno».
Il contratto di governo non sembra preoccuparsene. Nelle misure proposte ci sono «l’innalzamento dell’indennità di maternità, un premio economico a maternità conclusa per le donne che rientrano al lavoro e sgravi contributivi per le imprese che mantengono al lavoro le madri dopo la nascita dei figli». Altro neo: veramente vanno premiate le imprese che “si degnano” di non licenziare le donne dopo il parto? Oppure dovrebbero essere duramente sanzionate quelle che lo fanno? Nessuna obiezione sugli interventi elencati successivamente per le famiglie («agevolazioni alle famiglie attraverso: rimborsi per asili nido e baby sitter, fiscalità di vantaggio, tra cui “Iva a zero” per prodotti neonatali e per l’infanzia»), sul modello di quello che avviene in altri Paesi, Francia in testa.
Ma è evidente che lo Stato italiano non possa limitarsi a questo, in una situazione in cui l’Italia è al penultimo posto nell’Ue per tasso di occupazione complessivo, inchiodato al 62,3% contro una media europea del 72,2% (dati Eurostat, aprile 2018), meglio soltanto della Grecia, e in cui la differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile sfiora il 20%, con soltanto Malta a distinguersi per una differenza maggiore (26,1%). Il nostro Paese è ancora una volta penultimo con appena il 52,5% di donne occupate. Eppure, alla voce lavoro, nulla si dice a proposito dell’esigenza di promuovere l’occupazione femminile. Nessun cenno, nessun piano straordinario che pure, a giudicare dai dati, sarebbe necessario.
È chiaro che un beneficio alle donne arriverà dal capitolo pensioni, dove si propone la proroga di “opzione donna” alle lavoratrici con 57-58 anni e 35 anni di contributi, che potranno uscire dal lavoro optando in toto per il contributivo. Così come è evidente che la pensione di cittadinanza (un’integrazione per tutti i pensionati con assegno inferiore ai 780 euro mensili) sarà un aiuto per le donne, che secondo i dati Istat sono il 52,7% dei pensionati e ricevono in media importi annuali di circa 6mila euro inferiori a quelli degli uomini.
Inquietano, a margine, le dieci righe dedicate al diritto di famiglia, in cui si auspica una riforma dell’istituto dell’affido condiviso dei figli, per «assicurare la permanenza del figlio con tempi paritari tra i genitori, rivalutando anche il mantenimento in forma diretta senza alcun automatismo circa la corresponsione di un assegno di sostentamento e valutando l’introduzione di norme volte al contrasto del grave fenomeno dell’alienazione parentale». Parole che suonano come il preludio a un altro attacco alle donne.
Da quello che si autodefinisce “governo del cambiamento” sarebbe stato lecito aspettarsi molto, molto di più, invece che assistere all’ennesimo documento in cui le donne sono prese in considerazione soltanto in quanto madri o in quanto pensionate. Esseri a due dimensioni, a cittadinanza dimezzata. Senza riferimento alcuno alla lotta agli stereotipi, alle pari opportunità, alla diversity e al gender gap salariale, con un approccio securitario contro la violenza sessuale (non di genere), relegato alla voce giustizia, dove si prevedono soltanto aggravanti e aumenti di pena nonché una formazione specifica «agli operatori delle forze dell’ordine sulla ricezione delle denunce riguardanti reati a sfondo sessuale, stalking e maltrattamenti per i quali sarà previsto anche un vero e proprio “codice rosso”».
C’entrerà il fatto che al tavolo sedesse una sola donna su 14 negoziatori più due leader politici, ovviamente uomini?