Diversity programs nelle aziende: cosa c’è che non funziona?

diversityIl progresso verso la gender parity nelle organizzazioni europee c’è ed è misurabile, ma procede con esasperante lentezza, nonostante il numero cospicuo della aziende impegnate – almeno sulla carta – su questo fronte. Il dato più significativo al riguardo è quel misero 17% in media (+6 punti dal 2013) di donne tra i membri di comitati esecutivi in Europa occidentale nel 2016, che in Italia scende a uno scandaloso 9 per cento. E non è il caso di trastullarsi troppo con il miglior risultato di presenza – 32% (+10 punti dal 2013) – nei board delle aziende quotate sui principali listini dei relativi Paesi.

Perché la realtà – e stiamo parlando già della parte migliore – è quella misurata dalla decima edizione dell’indagine “Women Matter 2016. Reinventing the workplace to unlock the potential of gender diversity”, che McKinsey ha condotto in 9 paesi (Finlandia, Francia, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia, Regno Unito – per l’Italia in collaborazione con Valore D), su un campione di 233 grandi aziende e multinazionali, generalmente più avanzate in termini di cultura manageriale. 



La situazione che emerge è piuttosto sconfortante: l’88% di dipendenti dichiara di non credere che la propria organizzazione stia implementando le misure necessarie a migliorare la diversità di genere, e il 62% di loro che non sa come contribuire al tema. E, ancora, del 52% delle aziende del campione che ha implementato più della metà delle iniziative, solo il 24% ha un numero di donne superiore al 20% in posizioni apicali.
Insomma, i diversity programs, ad oggi, non si sono dimostrati particolarmente efficaci.



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«Spesso le ragioni sono dovute a una pura carenza di numeri sufficienti di donne da far crescere nelle organizzazioni – commenta Cristina Catania, partner McKinsey & Company -. In Italia, abbiamo individuato due momenti particolarmente critici. Uno è quello dell’entry level, in cui rileviamo una percentuale inferiore rispetto ad alcuni paesi come Francia e Regno Unito: 38% rispetto a una media del 44% considerando, insieme all’Italia, Francia, Regno Unito e Norvegia, che oltretutto è una sovrastima considerando il campione utilizzato (19 grandi aziende e filiali di multinazionali, 400mila dipendenti, ndr). L’altro è quello del passaggio a C-level, dove giocano contro le donne modelli di leadership maschile che ancora dominano e condizionano le scelte».

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E’ chiaro, quindi, che oltre a un processo di cambiamento della cultura sociale, a partire dalle scuole e dalle famiglie, dove un’educazione paritaria potrà davvero far svoltare le prossime generazioni, «nelle aziende – afferma Catania – va fatto uno sforzo molto più forte nel momento del recruiting, e poi dello sviluppo della crescita femminile, attraverso adeguati programmi di formazione ed empowerment, supportati dal welfare aziendale, sino a lavorare sugli stili di leadership. A fare la differenza è inserire la gender diversity tra i Kpi quantitativi dei manager» 



Una cosa è certa, per ottenere risultati apprezzabili è necessario implementare programmi pluriennali, di almeno 3-5 anni, supportati da un forte committment del Ceo che trova riscontro nell’inserimento della gender diversity tra le prime tre priorità dell’agenda strategica, e innervati nell’organizzazione attraverso change maker e role model, che possano trasformare i comportamenti dei manager e dell’intera popolazione aziendale. Questi sono i caratteri distintivi delle aziende best-in-class.

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Ma che dire dell’Italia delle aziende familiari, spesso di piccole e medie dimensioni? «In questo caso il problema non è entrare nei gangli della cultura organizzativa – spiega Catania -, ma semmai aiutarle a sviluppare la consapevolezza di quanto la diversità sia una ricchezza, facendo leva su manager e sulle numerose imprenditrici di valore che operano in Italia. Un lavoro che è tra le priorità strategiche di Valore D, prima associazione di imprese nata per promuovere la leadership femminile nel paese».
 E un vero banco di prova per l’evoluzione della cultura manageriale del family business. Quando un’azienda del calibro della Ferrero sceglierà un top manager donna, allora sapremo di aver raggiunto l’obiettivo.