Violenza sulle donne: hympathy e victim blaming, ancora troppi errori nella narrazione dei media

Articoli di stampa che vedono ancora femminicida e vittima sullo stesso piano e che cercano “zone d’ombra” anche nella vita della vittima. Pezzi giornalistici e sentenze di tribunali dove emerge ancora l’himpathy per il carnefice che “va compreso” come nei casi in cui è la colpa della donna maltrattata è stata quella, ad esempio, di sfaldare il matrimonio. Tanta strada è stata fatta per ridare dignità alle vittime, nel racconto giornalistico, tanta è ancora da fare.

L’ultimo caso è quello avvenuto in Sardegna, il femminicidio di Cinzia Pinna, 33 anni, brutalmente uccisa l’11 settembre scorso da Emanuele Ragnedda, reo confesso. Il corpo della razgazza è stato trovato qualche giorno dopo, tra Palau e Arzachena. Tanto, tantissimo abbiamo letto su di lui, imprenditore del vino, sulla sua famiglia, sulle bottiglie di lusso che produce, nulla sulla persona che era Cinzia, se non per delle allusioni su «qualche zona d’ombra», come ha scritto un giornale, sulla sua vita. Leggiamo, per esempio: “«Una ragazza d’oro, solare e disponibile», dicono gli amici. Ma qualcuno sussurra: «Quando era in sé», riferendosi a procedimenti penali in corso”.

Narrazioni che adottano il punto di vista di chi ha ucciso, mai della vittima,  che scavano come per ribaltare le responsabilità e finiscono quasi per giustificare il comportamento del violento. Tanto che, proprio su questo caso, è intervenuta la Commissione pari opportunità del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti in seguito alle numerose segnalazioni ricevute. «Il diritto di cronaca non può trasformarsi in un abuso, lo abbiamo scritto e ripetuto più volte, anche nei corsi di formazione ed è una norma contenuta nel nostro codice deontologico. Invece, nuovamente, di fronte al racconto di alcune testate giornalistiche del femminicidio di Cinzia Pinna, ci troviamo in palese, pericoloso contrasto con le regole di cui il giornalismo si è dotato in questi ultimi anni», dice la Commissione.

Ancora una volta, la Cpo «invita i giornalisti e le giornaliste a dimostrare maggiore sensibilità nei confronti della vittima e a un’assunzione di responsabilità nel raccontare i femminicidi, evitando di fornire una cronaca distorta di un crimine efferato, per contribuire così a spezzare gli stereotipi e i pregiudizi alla base della violenza di genere che opprime la nostra società». Senza voler censurare, dunque, la Cpo chiede che «i fatti siano raccontati con maggior rispetto per chi non c’è più. Possiamo raccontare i femminicidi per quello che sono. In questo caso, come per altri del resto, sappiamo tutto del femminicida reo confesso, della sua vita brillante, imprenditoriale e personale. Di Cinzia Pinna, che è stata barbaramente uccisa, ci viene invece fornita una descrizione parziale, ma che si sofferma su presunte patologie o ipotetiche dipendenze. Cinzia Pinna è morta non in conseguenza di questo ma perché un uomo l’ha uccisa», conclude la Cpo.

Anche nel racconto mediatico della violenza sulle donne c’è ancora una cultura da cambiare, e per farlo bisogna partire dalle nuove generazioni, insegnando loro l’importanza del racconto corretto della violenza fin dalle scuole perché le parole possono fare male e contribuiscono a creare una mentalità, un’idea, una cultura, rendono vittima nuovamente la vittima (vittimizzazione secondaria) e contribuiscono ad alimentare quegli stereotipi che ritroviamo anche nelle sentenze. Recente il caso dell’ennesima condanna all’Italia da parte della Cedu (Corte europea dei diritti dell’Uomo): i giudici italiani continuano a confondere la violenza con il conflitto, mostrando non solo una mancanza di formazione, ma una resistenza ideologica a superare modelli di relazione basati su uno squilibrio di potere.

In questo estratto del libro In TRAPpola la spiegazione di cosa sono  il victim blaming e l’himpathy, errori ancora troppo frequenti da evitare nel racconto mediatico se non si vogliono passare ulteriori stereotipi sessisti alle nuove generazioni.

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La colpevolizzazione della vittima (il victim blaming)si manifesta in tante forme, alcune di queste subdole, non facili da cogliere. Si presenta, ad esempio, attraverso interviste ai parenti e amici di lui o ai vicini di casa che finiscono per fornire moventi e distribuire la colpa anche su di lei. Il giornalista in questi casi si giustifica affermando che si tratta di interviste, di commenti, non di ricostruzioni oggettive dei fatti. Ma scegliere un titolo, spesso l’unica parte dell’articolo che resta impressa al lettore, dichiarazioni di parte, senza contestualizzare e bilanciare le voci, non basta a deresponsabilizzare l’autore eticamente e deontologicamente.

Un altro esempio di narrazione scorretta con tentativo di far ricadere la colpa anche su di lei, è fornito dal titolo:«Raptus di gelosia nella notte. Tenta di strangolare la moglie. Il folle gesto dopo che la donna si era chiusa in camera per fare una telefonata». L’episodio, risalente all’autunno del 2023, che si conclude tragicamente con la morte della donna in ospedale qualche giorno dopo, è presentato con una sequenza precisa: si fornisce un movente, la gelosia, e si parla di “raptus” ascrivendo il reato a una categoria, quella del gesto di follia, che è solo il 5% circa del totale; poi l’uomo tenta di uccidere la moglie; una telefonata della donna ha scatenato la violenza.

Nell’articolo si aggiungono particolari, viene data voce ai vicini: «Era un uomo silenzioso, frequentava la moschea». Viene sottolineato che «vista l’assenza di denunce si pensa che si tratti di un episodio isolato». Una sfilza di stereotipi, pregiudizi e narrazione vittimizzante. Anche l’informazione sull’assenza di denunce contro di lui contribuisce a creare un contesto parziale e fuorviante, non riportando un dato fondamentale, ovvero l’esistenza di un grande sommerso: in Italia solo il 27% delle donne vittime di violenza maschile denuncia, stima il rapporto per il 2023 della rete dei centri antiviolenza D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza.

In casi come questo, scatta la cosiddetta himpathy con il carnefice, ossia la tendenza a empatizzare con le supposte buone ragioni e il punto di vista dell’autore di violenza. Anche l’himpathy spesso si autoalimenta proprio con gli effetti derivanti dalla scelta degli intervistati, quando l’inviato o il cronista giunge nel luogo del delitto e inizia a parlare con vicini, colleghi e parenti, senza incrociare le testimonianze.

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Questo brano è estratto dal libro “In Trappola.  Giovani, parole e linguaggio. Come liberarsi da stereotipi e modelli sessisti” (ed. Il Sole 24 ore), di Chiara DI Cristofaro, Simona Rossitto e Livia Zancaner, un viaggio che parte dal linguaggio dei ragazzi e delle ragazze e che vuole indagare quanto siano profonde, anche nelle nuove generazioni, le radici della violenza sulle donne. 

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