Da Kabul a Bologna, a piedi, sono oltre 7.000 chilometri. La prima volta in cui Jan Nawazi ha provato a percorrerli aveva circa 13 anni. Oggi, Jan è cittadino italiano, ma non ha smesso di consumare le suole per garantire che i diritti umani siano una realtà per tutti, e non solo per alcuni. Come nel caso di sua moglie, Farzana, finita insieme a molti altri cittadini afghani, in un buco nero burocratico che le impedisce di guardare con serenità al futuro.
In fuga dall’Afghanistan
Jan è nato nella regione di Ghazni, tra Kandahar e Kabul, in una famiglia della minoranza Hazara. Ha trascorso buona parte della sua vita in fuga. Prima in Pakistan, poi in Iran, per scappare alle persecuzioni della maggioranza sunnita. A tredici anni lavorava già calzolaio e spesso veniva picchiato in strada a causa delle sue origini.
Affidandosi a un trafficante di esseri umani, con altri undici ragazzi ha intrapreso la rotta verso la Turchia. «Mia madre aveva provato a dissuadermi. Ma come spesso fanno i figli, non l’ho ascoltata. In quel viaggio è successo di tutto: ci siamo nascosti nel cofano di una macchina per ore e abbiamo camminato per settimane immersi in un metro di neve al confine fra Iran e Turchia».
Lasciare l’Afghanista, ieri e oggi
Sua madre si chiama Habiba Shafai. Jan ci tiene a precisarlo: «Da quando si è spostata nessuno l’ha chiamata per nome. In un Paese come l’Afghanistan, se sei una donna, sei invisibile. Prima sei figlia di qualcuno, poi la moglie di qualcuno, successivamente la madre di qualcuno. Finanche sulla tomba, sei ricordata solo con una di queste tre dimensioni». Chiamarla per nome è, quindi, già di per sé un gesto rivoluzionario.
Oggi, in Afghanistan, alle ragazze è impedito perfino sorridere. La ripresa del potere dei talebani, il 15 agosto 2021, ha portato non solo alla totale negazione dei diritti delle donne, ma ha anche costretto milioni di persone a fuggire dalle proprie abitazioni. Gli afghani rappresentano, infatti, la terza popolazione di rifugiati a livello globale, ma secondo l’International Rescue Commitee (IRC), gli sforzi attivati a livello europeo per rispondere a questa emergenza umanitaria sono insufficienti. Nel 2022, sono stati messi in salvo solo 271 rifugiati, lo 0,1% di quanti necessitavano di essere ricollocati.
Non solo, i richiedenti asilo e i rifugiati spesso devono affrontare respingimenti o rimpatri forzati, procedure inique e lunghe permanenze nei centri di accoglienza. Politiche che hanno effetti devastanti a livello psicologico: Il 92% degli afghani assistiti dalle équipe di salute mentale della IRC in Grecia ha manifestato sintomi di ansia e l’86% di depressione. Lo sa bene anche Jan che ha dedicato parte della sua vita ad assistere come volontario altri migranti, consapevole di quale sia il prezzo da pagare per un viaggio di questo tipo.
La svolta turca
Una volta arrivato in Turchia, Jan ha trascorso un giorno e mezzo nascosto in un bosco vicino al mare. Qui, aiutandosi con la pompa di una biciletta, ha gonfiato un gommone che sarebbe servito a lui e agli altri profughi, per raggiungere un’isola della Grecia. «Mentre ci stavamo avvicinando all’isola, dopo diverse ore in cui remavamo, la guardia costiera ci ha scoperti e arrestati, ma abbiamo incontrato una poliziotta che ci ha consigliato di dire che eravamo birmani e non afghani, perché così ci avrebbero lasciati andare. Sapeva che se fossimo tornati a casa, avremmo rischiato la vita e avremmo messo in pericolo le nostre famiglie. Grazie a lei, il mio viaggio è continuato».
L’arrivo in Italia
Nel 2007, Jan ha raggiunto l’Italia all’interno di un tir partito da Patrasso e diretto in Svezia, con altri 19 esseri umani che, come lui, per 48 ore non hanno mangiato né bevuto. «Volevamo andare in Svezia, ma faceva molto caldo, e alcuni hanno iniziato a sentirsi male per la mancanza di ossigeno. Il camionista, ignaro della nostra presenza, ci ha scoperti e ha chiamato le forze dell’ordine».
Ancora una volta, in caserma, Jan ha incontrata una donna gentile che ha ordinato per tutti pizza e coca cola. «Mi avevano detto di diffidare degli italiani, che non sarebbero stati gentili con i profughi, e invece: ho scoperto tutta l’umanità di cui questo Paese è capace con una semplice pizza».
Una nuova vita
Dopo essere entrato in un progetto di accoglienza Sprar, a Bologna, Jan ha avviato la procedura come richiedente asilo e ottenuto i documenti, preparandosi così alla sua “rinascita”. «Per un periodo ho dormito in un sacco a pelo sotto ai portici: i pochi soldi che avevo in tasca li ho usati per prendere la patente che mi avrebbe aiutato a trovare lavoro» – spiega.
Così è andata: ha iniziato a occuparsi delle consegne a domicilio per una pizzeria gestita da un ragazzo iraniano. Da quel momento in poi, è cambiato tutto: Jan ha aperto due pizzerie da asporto e nel 2019 un piccolo ristorante, Kabulagna (crasi tra “Kabul” e “Bologna” in dialetto bolognese), dove serve piatti del suo paese.
Non appena aperto il ristorante, è riuscito a chiedere il ricongiungimento di sua moglie, Farzana Ibirahimi. «Con il suo arrivo la mia vita è cambiata totalmente. Grazie alle sue capacità, abbiamo aperto un secondo ristorante, sempre a Bologna, e lei oggi ha finalmente la possibilità di realizzare il suo sogno: iscriversi a Scienze Infermieristiche e diventare infermiera. Cosa che in Afganistan non avrebbe potuto fare».
I nodi ancora da sciogliere
La conquista della libertà, però, procede a passo lento e spesso farraginoso. Farzana, infatti, non può richiedere la cittadinanza perché la procedura prevede che si presentino l’atto di nascita e il certificato penale. Documenti che vanno richiesti in patria, ma il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan le rende impossibile affrontare il viaggio da sola e, al contempo, impedisce a Jan, in quanto ex rifugiato, di accompagnarla. «È una situazione comune a molte altre donne che sono arrivate anni fa in Italia per ricongiungimento familiare. È un buco nero dal quale non riusciamo a uscire e che non ci fa sentire pienamente liberi» – denuncia.
«A oggi queste donne non hanno altre vie per ottenere la cittadinanza se non recarsi in patria. Ci sono molti altri casi come questo, la prefettura ne è al corrente, ma senza indicazioni diverse da parte del ministero dell’Interno non è possibile agire diversamente» – spiega Michele Larentis, responsabile attività esterne del Cinformi, Centro informativo per l’immigrazione della Provincia Autonoma di Trento.
E Mirko Montibeller, operatore sociale in area informazione e consulenza del Centro, aggiunge: «È un problema che riguarda anche gli uomini, non solo le donne. Per la popolazione ucraina è stata prevista una deroga: visto lo stato di guerra, è possibile presentare la richiesta di cittadinanza italiana anche senza presentare tutti i documenti. Lo stesso accade per alcune etnie del Pakistan». Per l’Afghanistan, invece, ostaggio della dittatura talebana, non esistono eccezioni.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.
Per scrivere alla redazione di Alley Oop l’indirizzo mail è alleyoop@ilsole24ore.com