Quando la cronaca non rispetta le donne

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Il Garante per la protezione dei dati personali ha disposto, in via d’urgenza, il “blocco” provvisorio di ogni ulteriore diffusione, anche on line, dei contenuti dei messaggi acquisiti e presentati in alcuni articoli da “la Repubblica””. È con queste parole che si apre il comunicato diffuso dall’Ufficio il 31 marzo, in seguito alla vicenda romana che vede coinvolti la dirigente di un liceo ed uno studente maggiorenne del medesimo istituto, tra i quali sarebbe intercorsa una relazione sentimentale.

La storia tiene letteralmente banco da giorni. Anche le testate nazionali, al pari dei giornali scandalistici che vendono solo gossip, ne hanno scritto. E l’hanno fatto male, malissimo. Molti sono caduti su un registro che ancora oggi si mostra più che inadeguato, perché in grado solo di disseminare luoghi comuni e stereotipi a tutto svantaggio delle donne. A partire dalla testata del gruppo GEDI che ha reso note quelle trascrizioni Whatsapp, finite poi nel mirino del Garante. Sul punto va dato atto della replica di Repubblica, apparsa per sostenere la legittimità dell’operato oggetto delle contestazioni.

Le aggressioni rivolte alla donna all’indomani della notizia sono state pesantissime, hanno scatenato sui social quello che l’avvocato Alessandro Tomassetti (che rappresenta la dirigente) ha definito una lapidazione. Parole come sassi, scagliati dal maschilismo, dal perbenismo e dal giustizialismo spicciolo di cui siamo campioni.
“In alcuni Paesi le donne si lapidano con le pietre, nel 2022 in Italia si lapidano a parole sui giornali. Pubblicare nome, cognome, professione, foto e audio in assenza di reato e ancor prima di qualsiasi ricerca della verità non è diritto di cronaca ma negazione totale alla privacy e negazione dei diritti fondamentali per un essere umano, donna o uomo che sia. In questo caso la dott.ssa Quaresima è stata oggetto di una caccia alle streghe, come forse nel più buio Medioevo poteva accadere” chiosa Tomassetti.

La reazione della dirigente è di sconcerto per la gogna mediatica. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nega gli addebiti e non si capacita per non essere stata più prudente, con la sua famiglia esposta ai leoni da tastiera da giorni.

La violazione della privacy

Come nel caso dei nomi delle donne che avevano abortito, in bella mostra sulle croci dei feti al Flaminio, anche questa volta stiamo parlando di violazioni gravissime. E sono, davvero, sotto gli occhi di tutti. La percezione non può che essere nettissima, non serve l’aiuto di un giurista per cogliere il livello di violenza che si è abbattuto ancora una volta su una donna nel nostro Paese.

Una ricostruzione inequivocabile, ad ogni modo, arriva proprio dal Garante: “Il Codice privacy prevede che in caso di diffusione o di comunicazione di dati personali per finalità giornalistiche devono essere sempre rispettati i limiti del diritto di cronaca”.
Nella fattispecie a venire in evidenza sono concetti quali la tutela della dignità, della riservatezza, dell’identità e della protezione dei dati personali. Si tratta di un terreno importantissimo, quella che dovrebbe rimanere una zona franca, dai limiti invalicabili. Al di là c’è – o dovrebbe esserci – ciò che l’autorità definisce “il limite dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”.

Il problema è che la dinamica si ripete, in modo cieco. Esattamente come abbiamo visto accadere più e più volte, anche in casi di reati odiosissimi quali il revenge porn o lo stupro ma persino il femminicidio, il biasimo e il giudizio colpiscono senza alcun margine di errore la donna, financo la vittima.

È finita così, nella vicenda romana, al centro della scena, la preside condannata senza che vi sia l’ombra di un reato. Fatti privatissimi sono stati resi noti senza riguardo alcuno, ma ben oltre i margini che circoscrivono verità, continenza e pertinenza.

Il racconto sui giornali

La ricostruzione che ne fanno i giornali è pruriginosa e finisce per dare in pasto all’opinione pubblica una sfera intima violando e mortificando la dignità umana e ledendo perciò diritti fondamentali. Per amore di verità deve darsi atto che nel mezzo della bufera alcuni ex alunni della dirigente si sono esposti e hanno consegnato una lettera aperta che è più di una manifestazione di stima, di solidarietà e di affetto ed è anche un modo per ristabilire la verità e accendere un faro.

Va registrata, certamente, la reazione di GIULIA, acronimo di Giornaliste Unite Libere Autonome. La sigla da anni rappresenta una fascia di professioniste dell’informazione in grado di distinguersi per attenzione riguardo ai temi della parità di genere che investono in primissima battuta il fenomeno ancora incontenibile della violenza contro le donne: “Fotografie, nome e cognome, indiscrezioni sulla vicenda e sullo scambio di messaggi: a Roma è esploso il caso di una preside che avrebbe avuto una relazione con uno studente maggiorenne e sui giornali è subito diventata una caccia al dettaglio piccante. Una non-storia raccontata dal buco della serratura, senza nessuna doverosa cautela nei confronti della donna. Di lui, e aggiungiamo giustamente, non si sa nulla: ma non vorremmo sapere nulla neppure di lei, sbattuta letteralmente in prima pagina, a sfregio di ogni richiamo deontologico sulla dignità della persona”.

E dire che di decaloghi ne sono stati stilati molti, uno su tutti il Manifesto di Venezia che dal novembre del 2017 spiega fuori da ogni possibilità di equivoco quello che si può e quello che non si può, né si deve fare, quando si racconta la violenza contro le donne.

La richiesta di un Osservatorio permanente

La settimana, del resto, è stata campale. La fine del mese di marzo ha fatto registrare l’ennesimo femminicidio. In questo caso la vittima è una ventiseienne. Si chiamava Carol Maltesi ed era la mamma di un bimbo di 6 anni.

Per questo GIULIA ha chiesto un incontro urgente con la ministra per le pari opportunità, Elena Bonetti, con la presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, Valeria Valente, e la presidente dell’intergruppo della Camera per le donne, i diritti e le pari opportunità, Laura Boldrini.

Le giornaliste chiedono un Osservatorio permanente proprio sul Manifesto di Venezia, perché davvero non se ne può più: “Carol è stata uccisa; il suo corpo fatto a pezzi, messo in un congelatore, buttato giù per un pendio dentro sacchi neri, quelli che si utilizzano per l’immondizia. Una donna trattata come un rifiuto da chi l’ha ammazzata e si è accanito su di lei e dalla narrazione tossica, nelle parole e nei titoli, di questo femminicidio: Charlotte era “un’attrice porno“, il carnefice “un impiegato di banca e food blogger”, lei vittima di “un raptus”. Questa non è informazione; è pregiudizio sotto forma di giornalismo, è il pericoloso, reiterato approccio che cerca giustificazioni per il femminicida e colpe per la vittima”.

Lo denunciano le giornaliste di GIULIA nel comunicato, la deontologia, il rispetto per la persona restano ai margini di queste vicende che dicono di spettacolarizzazione, voyerismo, di pornografia del dolore, di un diritto di cronaca tramutatosi ormai in abuso.
È forse il momento di agire perché non si può più lasciare che continui ad accadere.

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