I miei capelli sono un po’ mossi, lunghi e obiettivamente facili da gestire. Quelli delle mie figlie, che sono nate in Etiopia, sono come delle soffici nuvole senza peso: sottili sottili ma con ricci tipo fusilli. Sono quattro anni che non li tagliamo, stiamo aspettando che decidano di piegarsi alla legge di gravità. “Mamma, quando andranno verso il basso?”, mi chiedono periodicamente.
“Non lo so tesoro, prima o poi crescendo diventeranno più pesanti e inizieranno a scendere!”. La verità, parliamoci chiaro, è che io di capelli afro non so nulla.
Sono anni che mia figlia minore, che oggi ha quasi 9 anni, mi chiede di fare le treccine con l’extension. Sono anni che puntualmente le rispondo categoricamente di no. Dove si è mai vista una bambina con l’extension? Sono cose da grandi. Magari quando sarà una ragazza ne possiamo riparlare. Forse.
“Mamma, ma quando ero in Etiopia per il mio terzo compleanno mi hanno fatto fare le extension. Bionde.” Questa storia me la racconta spesso. Nonostante avesse tre anni, è rimasta profondamente impressa nella sua memoria di bimba.
Giugno è il mese dei saggi, ed inesorabile, qualche giorno fa, è arrivato anche quello di danza. Il suo primo saggio di danza, in un grande teatro.
Sono mesi che provano e si preparano per l’evento. Tra le coreografie di hip hop c’è un suggestivo balletto con un cappello. Devono metterlo e toglierlo più volte.
“Mamma, il cappello non mi entra. Con i capelli sciolti non ci sta, con la coda non ci sta. Come faccio?”, mi ha detto più volte sconsolata.
C’è anche un’altra coreografia, di danza moderna questa volta, in cui tutte le bambine hanno i codini. “Mamma, tutti hanno di codini lunghi, io faccio ridere con i miei che sembrano due pon pon”.
E allora, ho ceduto. Alla faccia di tutti i miei principi sull’accettazione di sé, sull’accoglienza del proprio modo di essere. Ok, facciamo le treccine con l’extension, un regalo speciale per la promozione. Un’eccezione.
La nostra parrucchiera di fiducia è una signora etiope che ha un negozio a Milano. Ci siamo andate una mattina. Io e mia figlia maggiore ci siamo sedute pazientemente sul divanetto in attesa che il lungo lavoro terminasse. Mentre una ragazza intrecciava con abilità i capelli di mia figlia, nella postazione accanto la parrucchiera disfaceva la pettinatura di una signora dalla pelle scura non più giovanissima. Una vera opera di ingegneria che piano piano veniva smontata sotto i nostri occhi. Dai suoi veri capelli raccolti in tante sottili treccine a formare una perfetta spirale sulla testa, venivano scucite a una a una tante piccole ciocche di capelli leggermente mossi. E mentre eravamo lì ad aspettare, sono entrate almeno tre o quattro donne africane di diverse età a prendere appuntamento per questa acconciatura. E per ognuna di loro estraeva dai cassetti decine di ciocche di capelli che riuscivano a coprire tutte le gradazioni di mosso. Venivano accuratamente soppesate, toccate, confrontate dalle clienti. Ero rapita e affascinata da quello che vedevo. Un altro rapporto con i propri capelli, totalmente diverso da quello a cui siamo abituati a queste latitudini. E allora ho finalmente capito: non posso applicare il mio metro di giudizio a quello che non conosco. Io non ho i capelli afro, questa è la verità. E se mia figlia in Etiopia aveva l’extension a 3 anni è perché questo fa parte della sua cultura.
“Mamma, finalmente riesco a mettere e togliere il cappello!”. Mi ha detto uscendo con gli occhi che le brillavano dalla prova, e vederla saltellare la sera del saggio sul palco, felice, con i suoi codini svolazzanti è stato un regalo bellissimo.