Giornata Mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile: 152 milioni di bambini coinvolti

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Lavorano presso pizzerie e kebabberie per oltre 12 ore al giorno, all’inizio senza un regolare contratto, arrivando a percepire un compenso che varia tra i 150 e i 200€, che basta a stento per pagare il posto letto nelle case dei connazionali che li ospitano.

Tra i minori stranieri vittime di sfruttamento lavorativo, un numero significativo, in particolare, proviene dall’Egitto. Nella maggior parte dei casi provengono dalle zone di Al Sharkeya e Assiut giunti in Italia tramite ricongiungimento familiare, sono poco scolarizzati e già inseriti nel mondo del lavoro sommerso sin tenera età in lavori di poca specializzazione in agricoltura, pastorizia ed edilizia.

Sono questi alcuni dei dati presentati nel report “Piccoli Schiavi invisibili” nel 2018 da Save the Children, che ha preso in esame le situazioni di tratta e di sfruttamento in Italia e che, in occasione della Giornata Mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile del 12 giugno, istituita nel 2002 dall’OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro andrebbero riletti una volta di più.

In fondo, sono passati 24 anni da quando il piccolo Iqbal  è stato ucciso dagli sfruttatori che aveva denunciato. Uno scricciolo di 12 anni da solo a fronteggiare la mafia dei tappeti, che contribuì alla liberazione di centinaia di piccoli schiavi. Aveva un viso dolce Iqbal. Aveva vissuto sulla sua pelle di bambino i segni dei maltrattamenti, incatenato al telaio, costretto a lavorare sin dalla tenerissima età dall’alba al tramonto. Oggi avrebbe 36 anni e chissà quante cose avrebbe potuto dire e realizzare.

Vale la pena ricordare che per lavoro minorile sfruttato (in Italia lo sfruttamento del lavoro minorile è vietato dalla legge 977 del 17 ottobre 1967) si intende “L’attività lavorativa che priva i bambini e le bambine della loro infanzia, della loro dignità e influisce negativamente sul loro sviluppo psico-fisico. Esso comprende varie forme di sfruttamento e abuso spesso causate da condizioni di estrema povertà, dalla mancata possibilità di istruzione, da situazioni economiche e politiche in cui i diritti dei bambini e delle bambine non vengono rispettati, a vantaggio dei profitti e dei guadagni degli adulti”.

E dai tempi di Iqbal non sembra essere cambiata la situazione generale. Le stime recenti dell’OIL, infatti, parlano di 152 milioni di bambini (di cui 68 milioni di bambine e 88 milioni di bambini) vittime di lavoro minorile nel mondo. In particolare, metà di essi lavorano in situazioni pericolose che mettono a rischio la salute, la sicurezza e il loro sviluppo morale. 152 milioni sono un’enormità, un affronto terribile alla società del presente e del futuro.

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Lavoro dignitoso fa il paio con crescita economica e uno dei pilastri dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite è incardinato nell’obiettivo 8.7 che recita: “Adottare misure immediate ed efficaci per l’eliminazione del lavoro forzato, per porre fine alla schiavitù moderna e alla tratta degli esseri umani e per assicurare la proibizione e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile, ivi compreso il reclutamento e lo sfruttamento di bambini soldato; porre fine al lavoro minorile in tutte le sue forme entro il 2025”. A significare che il cammino da compiere è ancora lungo.

Il documento di Save the Children riporta che, nel 2017, sono stati registrati 220 illeciti riguardanti l’occupazione irregolare di bambini e adolescenti e, confermando quanto riscontrato già nel 2016, oltre il 70% delle violazioni riguarderebbe il settore terziario in cui si producono o forniscono servizi. In cima alla classifica troviamo servizi di alloggio e ristorazione, commercio all’ingrosso e dettaglio, settore agricolo, e poi via via attività artistica, sportiva, di intrattenimento e divertimento, edilizia, noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese, in attività professionali, scientifiche e tecniche, servizi di trasporto e magazzinaggio. E a quanto pare non c’è distinzione tra Nord e Sud Italia. Lo sfruttamento non fa differenze, è presente praticamente ovunque, ma si concentra in particolar modo in Lombardia (73), Puglia (69), Campania (12) e Emilia Romagna (11). «Anche in questo caso ci troviamo di fronte alla punta di un iceberg di un fenomeno sommerso e non rilevato» si legge sul documento.

«Il fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile è un fenomeno complesso, in gran parte sommerso e di fatto non monitorato» conferma Giulio Cederna, esperto di comunicazione sociale, curatore della nona edizione dell’Atlante dell’Infanzia a rischio in Italia, proprio per Save the Children, vincitore del Premio Andersen 2019. In particolare, in quest’ultima pubblicazione Cederna ha acceso i riflettori sul tema della periferia, intesa non solo come geografia delle nostre città, ma anche come spazio sociale e mentale, luogo a cui guardare per capirne bisogni, criticità, potenzialità. È proprio qui che si innesta, tra le altre cose, la piaga dello sfruttamento del lavoro minorile. Spesso accade che le povertà economiche vengano considerate in maniera separata da altri aspetti come la povertà di istruzione, o la povertà di accesso a tutta una serie di attività ricreative che sono fondamentali per lo sviluppo del bambino. Ma non è così, anzi.

«Bisogna parlare di tante infanzie. In qualche modo l’Atlante, in questi anni, ha raccontato, sotto tante sfaccettature, gli effetti della crisi economica in Italia e quante possibilità diverse si trova davanti un bambino, a seconda del territorio in cui capita: ci sono gigantesche differenze – precisa –  che vanno dall’’besità infantile alla povertà, alla dispersione scolastica, senza dimenticare lo sfruttamento dei percorsi migratori giovanili, emersi soprattutto negli ultimi anni».

Cederna parla a ragion veduta di periferie, che non sono, dunque, solo geografiche. Non serve, infatti, spingersi fino ai margini di un centro abitato per imbattersi nella periferia nella sua accezione tradizionale. Basta anche andare semplicemente al Rione Sanità o al centro di Genova, ad esempio. Alcuni cuori antichi sono periferie funzionali e sociali tanto quanto quelle che sono disposte lungo le tangenziali, in autentici quartieri dormitorio, privi di infrastrutture a sostegno della socialità. Sono queste situazioni a generare e alimentare il sottobosco dello sfruttamento. E dunque  «Quanto sono importanti i luoghi?» ci si chiede? «Quanto è importante il luogo dove si nasce?».

Nei luoghi, nei quartieri dove si cresce, succede che avvengano i processi formativi dei bambini e degli adolescenti, che, a volte, sono privati di opportunità e condizionati pesantemente dall’ambiente circostante. Per questo le risposte, ancora una volta, non si possono che trovare nelle politiche dedicate all’infanzia, alla cultura e all’istruzione.

«Viviamo un’epoca di profonde contraddizioni – prosegue Cederna – in cui da un lato sembra esserci un grandissimo investimento sull’infanzia che non si è avuto in nessun’altra epoca storica, mentre dall’altro lato occorre registrare allo stesso tempo la totale assenza di politiche per l’infanzia. Ci sono stati decine e decine di finanziamenti – conclude – ma quelli a pioggia, a volte, non possono essere sufficienti per affrontare il disagio di molte aree del Paese ed evidenziare le problematiche che andrebbero prevenute, come quelle del lavoro minorile. Parlo di politiche strutturali. La periferia è la metafora che abbiamo utilizzato per indicare la collocazione delle politiche in favore dell’infanzia nella geografia politica dei giorni nostri».