Essere “dreamer” a diciassette anni potrebbe sembrare facile. Ma se hai realizzato il tuo primo robot a undici anni guardando un video in inglese su Youtube e sei anni dopo, appunto, hai una scuola dove organizzi corsi di robotica e tecnologia, quel “dreamer” acquista tutt’altro significato. Valeria Cagnina, classe 2001, ha già al suo attivo esperienze al Massachusetts Institute of Technology (MIT), una delle più importanti università di ricerca del mondo, ma anche all’ETH il Politecnico di Zurigo e all’EPFL, il Politecnico di Losanna. Maker, cioè artigiana digitale, e MIT Duckietown senior tester, Cagnina è founder e Robotics Teacher presso valeriacagnina.tech
Quando è iniziata questa avventura?
Al Coderdojo Milano scopro per caso una pianta digitale realizzata con Arduino che interagiva con l’ambiente e me ne innamoro. Arrivo a casa e mi faccio comprare lo starter kit di Arduino. Dopo i primi semplici progetti iniziali, seguendo i video su Youtube, all’epoca solo in inglese, realizzo il mio primo robot autonomo in grado di muoversi da solo ed evitare gli ostacoli. A me sembrava una cosa banale che tutti i ragazzi della mia età potessero fare, ma ho scoperto presto che non era così.
Che cosa ti ha spinto a intraprendere questo percorso?
La molla che mi ha sempre spinto è stata senz’altro la curiosità e soprattutto il fatto di volere qualcosa di più dalla classica vita di tutti i miei coetanei, casa, scuola e sport.
Che ruolo ha la tua famiglia in questo percorso?
I miei genitori fanno tutt’altro e non si occupano di robotica. Sicuramente hanno avuto un ruolo importante nel supportarmi, nell’accompagnarmi e soprattutto nel lasciarmi libera di provare ed esplorare, anche quando magari non capivano fino in fondo quello che stavo facendo. Così come quando mi hanno lasciata andare a Boston da sola a 15 anni contro il parere di tutti.
Desideravi una quotidianità diversa e sogni ora una scuola diversa. In che modo provi a trasferire questa passione per la tecnologia agli altri bambini e ragazzi dei tuoi corsi?
Soprattutto con l’esperienza pratica e tanto divertimento: pochissime lezioni frontali e la quarta delle 10 regole della nostra scuola, il ‘learn by doing’. A Boston ho scoperto che la scuola non deve per forza essere noiosa: al MIT sono concentrati i maggiori cervelli della terra, fanno le cose più difficili del mondo e si divertono un sacco. Questo è sostanzialmente quello che Francesco Baldassarre, il mio socio, e io cerchiamo di fare ogni giorno con i nostri Dreamers, come chiamiamo chi partecipa ai nostri corsi: utilizziamo la robotica e la tecnologia, che sono le nostre passioni, per cercare di aiutare ogni ragazza e ogni ragazzo a esplorare il mondo con curiosità per scoprire quali siano le sue passioni.
Che cosa ti sta portando questa contaminazione continua con luoghi di tutto il mondo ?
I posti più tecnologici e sviluppati del mondo (penso a Boston e alla Silicon Valley) ti fanno capire quanto sia grande il gap con le nostre piccole realtà provinciali. A San Francisco ho visto insegnare photoshop e premiere in un asilo a bambini di 4-5 anni. I posti più poveri, penso all’Africa, ti fanno interrogare e confrontare su quanto le culture oggi siano ancora così distanti e su come ragazzi della mia età abbiano modi di vivere e valori così diversi dai nostri.
Credo si intenda proprio questo quando si dice che viaggiare apre la mente. Ci fa uscire dall’orticello della nostra quotidianità che spesso pensiamo essere il mondo, ma il mondo là fuori è immenso, variegato, poliedrico.
Ti stanno particolarmente a cuore le scuole di provincia, perché?
Ho cominciato a contagiare e contaminare la mia piccola realtà: la mia frazione, il mio oratorio, la mia città, Alessandria, che pur essendo così vicina a Milano, a volte ne sembra lontana anni luce. Nelle grandi città ci sono tante opportunità in ambito tech, nelle piccole realtà provinciali non solo non c’è nulla, ma bisogna ancora superare l’ostruzionismo, gli stereotipi per cui ancora oggi non si usa internet nelle scuole perché è pericoloso e perché significa entrare in contatto con malintenzionati.
Siamo nel 2018 ma la strada da fare è ancora lunga. I nostri progetti come scuola invece sono quelli di estendere la nostra filosofia di apprendimento attraverso Ambassador opportunamente formati che abbraccino le nostre idee e possano replicare eventi e corsi in ogni parte d’Italia.
Se guardi al futuro, come vedi il lavoro del domani?
Magari chissà…i controllori di volo potrebbero diventare controllori del teletrasporto. Ma qui ci vorrebbe la sfera di cristallo e personalmente preferisco la scienza alla fantascienza.Se penso però ai lavori del domani, mi viene in mente che il primo cambiamento deve essere fatto nella scuola. Mi piacerebbe davvero riuscire a stravolgere l’educazione e il sistema scolastico italiano. Fare in modo che ogni ragazzo sia spronato a scoprire, coltivare e inseguire le proprie passioni per poter fare un lavoro appagante, soddisfacente, ogni giorno diverso, perché solo amando ciò che si fa non si lavora un solo giorno nella vita. Vorrei vedere robot entrare nella quotidianità ad affiancarci nei lavori più noiosi e ripetitivi che spariranno, lasciandoci soltanto quelli più creativi e con alto uso della ragione. Ciò comporterà una formazione continua, una liquidità costante, tanto impegno e duro lavoro, ma soprattutto tante tante soddisfazioni. Ricordandosi sempre che solo sul dizionario successo viene prima di sudore.