“[…] nell’aula del Senato è mancato il numero legale e lo Ius soli, come avevo già annunciato ieri, è definitivamente naufragato. Colpito e affondato. Morto e sepolto. Per me è una grande vittoria, perché sono stato io in questi due anni e mezzo, con le mie decine di migliaia di emendamenti, a bloccare in commissione e poi in Aula questa assurda e inutile proposta di legge che serviva solo a regalare un milione di nuovi voti al Pd.”
Così lo scorso 23 dicembre Roberto Calderoli, coordinatore delle segreterie nazionali della Lega Nord (ministro inel governo Berlusconi e vicepresidente del Senato per quattro legislature), annunciava con toni che sfiorano l’eroico la sua grande impresa: aver contribuito al naufragio definitivo del cosiddetto Ius soli (che propriamente Ius soli non sarebbe stato, vedremo in seguito perché).
Questo disegno di legge è stato causa di un’accesa disputa fra chi ha ritenuto la riforma della legge sulla cittadinanza italiana proposta una risposta migliore a quelle che sono le esigenze sociali dell’Italia di oggi, decisamente diverse da quelle che si potevano riscontrare nel 1992 (anno a cui risale la legge sulla cittadinanza oggi in vigore) e chi invece l’ha osteggiato: molti per una mancata condivisione dei suoi ideali di fondo, tanti altri per una semplice ignoranza della sostanza del disegno di legge, delle differenze fra quello e la legge 91/1992 e delle reali implicazioni che avrebbe comportato l’approvazione del cosiddetto Ius soli.
Secondo quanto disposto dalla legislazione attuale chi nasce in Italia da genitori stranieri resta straniero fino al compimento dei diciott’anni, durante i quali deve aver risieduto senza interruzioni in Italia per almeno 10 anni per avere la possibilità di fare richiesta per l’ottenimento della cittadinanza italiana prima del compimento del diciannovesimo anno d’età. Lo status civitatis può essere richiesto anche dallo straniero che abbia regolarmente risieduto in Italia per almeno dieci anni (quattro se cittadino comunitario), dimostri di avere redditi sufficienti al sostentamento e di non avere condanne penali, in assenza inoltre di impedimenti per la sicurezza della Repubblica.
Per i giovani arrivati in italia durante la loro infanzia nessuna tutela: non solo a 18 anni non potranno fare richiesta per la cittadinanza italiana, ma non potranno farlo nemmeno dopo 10 anni di residenza in Italia in quanto sono richiesti loro 10 anni di lavoro: chi completa anche tutti i cicli di studio in questo Paese senza esservi nato dovrà attendere di trovare un lavoro (dopo la maturità? Dopo la laurea?) e lavorare per dieci anni prima che lo Stato Italiano gli riconosca il diritto alla cittadinanza.
Casi eccezionali? Non proprio. In Italia sono oltre 800mila i bambini e ragazzi che sono “Italiani senza cittadinanza”: nati qui, o giunti in Italia da piccoli, studiano o hanno studiato in Italia; molti hanno completato gli studi, tanti si sono laureati, e continuano a non essere ritenuti cittadini italiani.
Il disegno di legge naufragato lo scorso dicembre prevedeva l’istituzione di una sorta di Ius soli moderato (un vero e proprio Ius soli riconoscerebbe la cittadinanza italiana a tutti i bambini nati sul suolo italiano senza la necessità per loro di soddisfare ulteriori requisiti) tale per cui la cittadinanza italiana sarebbe spettata di diritto ai bambini nati sul suolo italiano da genitori stranieri con permesso di soggiorno permanente o di lungo periodo (almeno 5 anni), alloggio idoneo, reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e previo superamento da parte dei genitori di un test di conoscenza della lingua italiana.
Lo Ius culturae, meno rinomato del primo ma previsto dallo stesso disegno di legge, prospettava invece la possibilità per i bambini nati in Italia da genitori stranieri privi dei requisiti sopra elencati e a quelli arrivati in Italia entro i 12 anni di acquistare la cittadinanza italiana dopo la conclusione con profitto di un ciclo di studi di durata quinquennale o dopo il completamento di una formazione professionale di durata triennale. Ai ragazzi giunti in Italia dopo i 12 anni si sarebbero invece alternativamente richiesti il superamento di un ciclo di studi o 6 anni di soggiorno regolare in Italia.
Dunque non avrebbe ottenuto la cittadinanza italiana il neonato dato alla luce dalla migrante appena sbarcato in Italia (timore principale di chi si opponeva al nuovo disegno di legge) ma bambini e ragazzi nati in Italia da genitori che vivono in Italia, lavorano in Italia, contribuiscono alla crescita del Paese e tanti altri che, arrivati in Italia da piccoli, hanno studiato e sono cresciuti qui (gli 800mila italiani senza cittadinanza).
È un’ammissione amara e una dolorosa sconfitta per me, italiana di seconda generazione, e per chi come me credeva nella possibilità di un passo avanti nell’evoluzione culturale della nostra società che svincolasse il concetto di cittadinanza da quello di etnia, ma perché un disegno di legge volto a realizzare in sostanza quell’uguaglianza formalmente sancita dalla nostra stessa Costituzione ha trovato tanti ostacoli e tanti fieri ed entusiasti Calderoli se non per via del razzismo?
In un’intervista rilasciata a Repubblica Andrea Camilleri affermava: “Gli italiani sono razzisti, è inutile negarlo. Nel 1960 io lavoravo alla Rai di Torino e sui portoni delle case ho avuto modo di vedere cartelli che dicevano testualmente ‘NON SI AFFITTA A MERIDIONALI’. Come lo chiamate questo? È razzismo interno. Se esiste quello interno figuriamoci quello verso gli altri. È spaventoso.”
“Gli italiani sono razzisti”. Non tutti, certo. Non è mai possibile generalizzare. Ma in questo caso, quando la maggioranza del Parlamento non ha salvato questa legge, non si può che amaramente ripensare alle parole di Camilleri, perché come si può affermare che un bambino che nasce in Italia da genitori che vivono e lavorano in Italia e che contribuiscono alla crescita dello Stato Italiano è meno italiano di un altro bambino con le stesse caratteristiche? Non si può, non ci sono giustificazioni né attenuanti.
Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef Italia affermava in merito: “È un atteggiamento davvero inaccettabile quando si tratta di bambini e ragazzi. L’Italia ha violato l’art.2 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza in materia di non discriminazione, è un dato di fatto malgrado le continue raccomandazioni dei Comitati Onu”.
È a questo che ci siamo ridotti, ad essere un Paese poco civile, dove c’è chi combatte strenuamente una battaglia contro l’uguaglianza fra i bambini e i ragazzi, una battaglia il cui esito destinerà tanti di loro a crescere in un Paese che li ritiene stranieri, in cui necessitano un permesso di soggiorno.
A chi serve un permesso di soggiorno per stare a casa propria? A nessuno.
Forse il messaggio che si vuole comunicare loro quindi è che l’Italia non è casa loro? Io ho sempre pensato all’Italia come a casa mia, ma l’Italia continua a non volermi considerare una di casa, e fa male. Fa male.