L’intelligenza sociale può essere definita come capacità di comprensione dei fenomeni del mondo che ci circonda, di ciò che avviene ogni giorno attorno a noi, capacità di interagire positivamente con gli altri e di prevedere le ricadute che i nostri comportamenti possono avere sulle persone. E’ una competenza in continuo sviluppo e sempre migliorabile, che consente a ciascuno di noi di trovare un approccio altruistico ed empatico alle relazioni. Non si studia, non si impara dai libri ma per sviluppare questa forma di intelligenza occorre lavorare sulla conoscenza di se stessi, sulla consapevolezza dei propri stati d’animo.
Si può dire che avere competenze sociali significa avere una specie di radar sensoriale che permette di interpretare gli atteggiamenti altrui, di captare segnali di un linguaggio non verbale. Essere competenti socialmente vuol dire leggere la realtà e leggere dentro se stessi, cercando di esprimere i propri pensieri e le proprie opinioni in libertà, ma in maniera accurata, in modo da non ferire la sensibilità altrui. Condividere i nostri pensieri senza offendere o prevaricare permette la nascita di rapporti autentici, di collaborazione, di amicizia, di amore, in cui ciascuno ha attenzione ai bisogni dell’altro.
Sembra utopia e mi rendo conto che l’intelligenza sociale è una di quelle capacità più difficili da sviluppare, perché bisogna fare i conti con i torti subiti, con le ingiustizie, con gli amori negati, con la competitività a cui la nostra società ci ha tristemente abituati.
Eppure, è un percorso che vale la pena di intraprendere.
Bisognerebbe cercare di soffermarsi un po’ di più. Soffermarsi è un verbo in disuso, siamo costantemente di corsa, in ritardo sulla tabella di marcia. Rallentare e riflettere su se stessi, sulle relazioni, sugli errori commessi, sulle cose positive che pure accadono ogni giorno, sarebbe un ottimo punto di partenza. Non solo per gli adulti. Il percorso dello sviluppo sociale inizia con la nostra nascita ed è in famiglia, prima e a scuola, poi, che si esercitano i meccanismi per imparare a stare nel mondo.
Mi ha colpito moltissimo una video-conferenza della dottoressa Lucangeli, professoressa di psicologia dello sviluppo all’Università di studi di Padova, nella quale spiega come il neonato possieda già la base dell’intelligenza sociale: il sorriso. Certo, inizialmente è quasi un riflesso involontario, che accade senza un motivo preciso, un movimento ritenuto fisiologico come il pianto. Dopo pochissimo tempo, però, il sorriso diventa uno strumento comunicativo: il bambino lo attua nei confronti di chi gli sta vicino, di chi si occupa di lui. Sorride alla mamma, al papà, ai visi familiari e confortevoli e lo fa in modo volontario.
Con il tempo questa fantastica capacità di entrare in relazione viene dimenticata. Per la maggior parte della giornata abbiamo visi contratti, tirati, accigliati. So bene che il sorriso diventa un atto di coraggio in certi periodi difficili, eppure, è un modo talmente semplice e immediato per entrare in contatto con gli altri che dovrebbe diventare un esercizio quotidiano. A scuola, soprattutto chi ha a cuore il benessere dei bambini, non dovrebbe mai perdere questa capacità, perché un volto sorridente è un volto che comunica cura, attenzione, positività e empatia. Sorridere anche quando si sottolinea un errore è come dire: “hai sbagliato, ma ci sono io qui, ti aiuto a comprendere”.
Il sorriso del bambino vuol dire questo: eccomi, ci sono. Sorridere non vuol dire affatto perdere autorevolezza, anzi. Ci vuole forza nel sorridere e una grande intelligenza, quella sociale, così sottovalutata, eppure tanto fondamentale. Il sorriso apre le porte della comunicazione efficace e quando la comunicazione è fondata sulla serenità, l’apprendimento diventa quasi un gioco e si riesce a trasmettere valori sociali e umani importanti senza l’uso di troppe parole. Altro proposito per questo nuovo anno: concedere e concedersi un sorriso. E’ difficile, non impossibile.