Heidi Benneckenstein, nata Heidrun Redeker, ha soltanto 26 anni, eppure ha già vissuto due vite. Oggi abita nei dintorni di Monaco di Baviera in un appartamento non molto spazioso, lavora come educatrice in una scuola materna e ha un figlio, un marito e un cane che ama incondizionatamente.
Una vita, questa, che si potrebbe definire “normale” e che non lascia neanche lontanamente immaginare l’esistenza che Heidi ha condotto fino a qualche anno fa e che racconta nel libro intitolato Ein deutsches Mädchen. Mein Leben in einer Neonazi-Familie (tradotto “Una ragazza tedesca. La mia vita in una famiglia di neonazi”), pubblicato nel 2017 dalla casa editrice tedesca Klett-Cotta. Negazione dell’Olocausto, militanza in movimenti giovanili di estrema destra, risse con gruppi di antifascisti, svastiche e uniformi: queste sono le costanti che hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza di Heidi, quella che lei chiama la sua prima vita, vita che è riuscita a lasciarsi alle spalle non senza difficoltà e ripercussioni sul presente. Con la pubblicazione della sua autobiografia, Heidi Benneckenstein è diventata una delle più famose donne neonaziste pentite in Germania.
Heidi racconta in prima persona: “Ciò che ho vissuto non è bello. È per lo più sgradevole, in molti casi terribile, a volte scioccante, doloroso, crudele. Vedo figure confuse e volti malvagi, vedo uniformi, fiaccole e svastiche, vedo una bimba gracile, a volte insicura, a volte arrabbiata, poi di nuovo silenziosa. In realtà sono stata tutto meno che felice. Non mi sono mai sentita protetta né al sicuro”. Nelle parole dell’autrice si ravvisano vergogna e rabbia: vergogna per aver a lungo considerato normale ciò che in realtà è inaccettabile, per le frasi pronunciate e le azioni intraprese; rabbia per la consapevolezza di essere stata una vittima-complice e per il dolore causato dal confronto con il passato: “Ho trascorso i miei primi 18 anni di vita con dei nazisti. […] Sono loro che mi hanno cresciuto e preparato alla vita. Mi hanno picchiato, umiliato, lodato e premiato. In realtà non conoscevo nessun altro tipo di persona: i miei nonni, mio padre, gli amici dei miei genitori, i bambini con cui trascorrevo le vacanze, la mia prima compagnia di amici, il mio primo fidanzato, addirittura l’uomo che ho sposato – tutti nazisti, alcuni più radicali, altri meno, molti di loro militanti, violenti, pregiudicati”. Ma nonostante la vergogna e la rabbia, Heidi non si sottrae al confronto con la propria vita precedente, non si risparmia né si giustifica: “Ero una ragazzina nazi. Innocentemente colpevole, nata, spinta e costretta nell’angolo della destra, ma pur sempre una nazista”.
Diversamente da molti esponenti della scena di estrema destra, Heidi non proveniva da un contesto di povertà o da una famiglia disagiata. Ispettore aziendale di professione, il padre era un cittadino stimato, mentre la madre, nata in una famiglia borghese, faceva la casalinga e si dedicava esclusivamente alle figlie per volere del marito. Amici di famiglia e conoscenti erano in gran parte persone a prima vista distinte e istruite – addirittura accademici, medici, avvocati – ma che dietro le apparenze celavano un orientamento di ultradestra. Non sono dunque stati i complessi di inferiorità, la fase di ribellione adolescenziale o un contesto opprimente a far sì che Heidi abbracciasse l’ideologia neonazista. Come scrive l’autrice, “mi sono semplicemente avviata per la strada che avevo davanti e questa strada portava a destra”.
Nell’autobiografia di Heidi, il padre emerge come il vero responsabile dell’indottrinamento. Nei suoi confronti l’autrice è spietata tanto quanto con se stessa. In famiglia il signor Redeker viveva apertamente il suo ideale nazionalsocialista: nella libreria erano esposti in bella mostra volumi di letteratura nazista, alle figlie venivano concessi soltanto giocattoli degli anni Cinquanta, in casa vigeva l’obbligo di utilizzare termini tedeschi al posto di anglicismi (per esempio Handtelefon anziché Handy per indicare il cellulare), gli insegnamenti scolastici sulla Shoah venivano denigrati, i prodotti di marche statunitensi erano vietati e le vacanze venivano trascorse obbligatoriamente in Ungheria, perché “gli ungheresi erano dei veri nazionalsocialisti”. Heidi e le sue sorelle venivano sottoposte a continue umiliazioni, non potevano conversare liberamente a tavola e venivano punite in caso di infrazioni, come per esempio una porta chiusa troppo rumorosamente. Sebbene la madre non condividesse i metodi di educazione tirannici e la disciplina ferrea con cui il marito torturava le figlie, era troppo debole per opporsi.
Già in tenera età Heidi e le sorelle venivano mandate nei campi estivi della Heimattreue Deutsche Jugend (tradotto “Gioventù Tedesca Fedele alla Patria”), un’associazione giovanile di stampo neonazista fondata nel 1990 e proibita nel 2009 dall’allora Ministro degli Interni Wolfgang Schäuble. Con le sue descrizioni da ex-insider, l’autrice fa luce su un aspetto spesso trascurato dalla letteratura del settore perché poco accessibile, ovvero l’educazione dei bambini nella scena neonazista tedesca contemporanea: “Sul programma si parlava di campeggio, viaggi e feste, ma in realtà tutto verteva sulla formazione paramilitare dei bambini, che venivano sottoposti anche a terribili strapazzi fisici. […] Sedevamo attorno a un falò, cantavamo canzoni proibite, marciavamo per chilometri nella foresta e ci rivolgevamo l’uno all’altro dicendo ‘Kamerad’ o ‘Heil Dir’”. A queste attività si aggiungevano fra le altre cose lezioni di teoria della razza e simulazioni di battaglie della Seconda guerra mondiale.
Agli anni dei campi estivi sono seguiti quelli delle risse, dell’alcol e delle manifestazioni di estrema destra. A 14 anni Heidi è entrata a far parte dell’organizzazione giovanile dell’NPD, il Partito Nazionaldemocratico di Germania. Così ha conosciuto il suo futuro marito Felix, con cui tempo dopo avrebbe preso la decisione di lasciare il movimento, ma anche molti altri personaggi che oggi le capita di rivedere in televisione tra le fila di una parata di Pegida (movimento politico tedesco antislamista) oppure sul banco degli imputati del processo alla NSU (Nationalsozialistischer Untergrund, cellula terroristica tedesca di matrice neonazista attiva tra il 1997 e il 2011). Con Ralf Wohlleben, accusato di concorso in omicidio per la morte di nove migranti, Heidi ricorda di aver intonato canti di destra attorno a un falò. Del suo credo di allora Heidi scrive: “Il mio eroe era Rudolf Heß, che consideravo un uomo d’onore rispettoso, ragionevole e intelligente, un grande uomo e un nobile servitore del nazionalsocialismo”.
Con il tempo le convinzioni di Heidi hanno però cominciato a vacillare: la violenza nell’ambiente le sembrava eccessiva, non condivideva l’odio nei confronti dei migranti, non comprendeva più tante delle battaglie condotte dal movimento. Ma è stata la prima gravidanza all’età di 17 anni a spingerla a intraprendere una riflessione più profonda sul proprio futuro. Dopo due anni di tentennamenti Heidi e Felix sono riusciti a lasciare la scena neonazista e a voltare pagina, hanno fondato un’organizzazione volta ad aiutare gli estremisti di destra pentiti a lasciare l’ambiente e si impegnano nelle scuole per sensibilizzare i giovani. Sebbene siano ormai trascorsi diversi anni dalla svolta, Heidi e Felix sanno di essere ancora considerati dei traditori nella cerchia neonazista: di tanto in tanto ricevono minacce che li costringono ad adottare particolare prudenza nel quotidiano.
Oggi Heidi non ha più contatti con il padre e le due sorelle maggiori. Dalla sua storia drammatica ha tratto un libro forte e sconvolgente, in cui la prospettiva femminile rappresenta l’elemento più rivoluzionario: la maggior parte delle opere che tematizzano l’allontanamento dalla scena neonazista sono infatti scritte da uomini, ma come emerge dall’autobiografia di Heidi, il ruolo della donna nell’estrema destra così come l’educazione dei bambini rappresentano temi che meritano di essere approfonditi. Sfruttando il punto di vista privilegiato di un’ex-insider e optando per una sincera narrazione in prima persona, “Una ragazza tedesca” non si limita a far luce su un mondo parallelo che a oltre 70 anni dal tramonto del Terzo Reich continua a esistere nella società tedesca, ma vuole essere un monito a non volgere lo sguardo di fronte allo slittamento a destra che la Germania e l’Europa stanno vivendo oggi.
Il libro “Ein deutsches Mädchen. Mein Leben in einer Neonazi-Familie” di Heidi Benneckenstein, ed. Klett-Cotta, non è stato tradotto in lingua italiana. Le traduzioni dal testo contenute nell’articolo sono a cura di Gloria Reményi.