Sognare l’America, riuscire ad andarci, rimanerne delusi e tornare a casa. Nanda Vigo, artista, architetta e designer milanese nata a Milano nel 1936. Racconta: “avevo circa 7 anni, era l’ultimo anno di guerra ed eravamo sfollati sul lago di Como. Ogni tanto ci recavamo in città per fare acquisti e in una di queste uscite sono capitata davanti alla casa del Fascio di Terragni.
Sono rimasta fulminata, in quel momento ho scoperto la bellezza; la luce che entrava all’interno del vetrocemento della facciata si scomponeva in miriadi di piccoli arcobaleni e continuava a mutare, perché basta un minimo di spostamento del sole, della luce, e cambia completamento tutto”. Da lì nasce l’interesse di Nanda per la luce, una ricerca che porta avanti per tutta la sua vita professionale. Insieme alla pittura, grazie all’amico di famiglia Filippo De Pisis: “Non parlava con nessuno tranne che con me, nonostante avessi solo sei anni. Parlare con lui fu una rivelazione, è così che ho cominciato a dipingere”. Quindi Nanda si interessa all’arte e frequenta il liceo artistico – anche se nessuno a casa caldeggia la sua passione – e punta oltreoceano: “Il mio riferimento era l’America, per tutto; per la musica vera, il jazz, e poi per l’architettura. Nel 1939 Frank Lloyd Wright aveva realizzato la Casa sulla Cascata, che sembrava un vero capolavoro. Wright mi era rimasto impresso, aveva una scuola di architettura a Taliesin e il mio obiettivo era andare a frequentarla. Per essere ammessa alla scuola di Wright però non bastava la laurea italiana, quindi ho frequentato l’Institut Polytechnique di Lausanne, in Svizzera. La mia famiglia non mi ha mai supportato, non gli importava che io facessi l’università o proseguissi gli studi. Così ho lavorato presso una ditta come grafica per guadagnare il necessario per raggiungere gli Stati Uniti. Fresca di laurea sono partita per Taliesin West, dopo aver mandato una lettera alla scuola ed essere stata accettata”. Lo stage dal grande architetto però si rivela una delusione e il mito di Frank Lloyd Wright si infrange agli occhi di Nanda: “Era un personaggio dispotico, dopo un mese e mezzo ho deciso di andarmene per cercare un altro stage a San Francisco”. Ma anche lì Nanda non trova quella fusione fra arte e architettura che va cercando: “Nello studio c’erano venti tavoli da disegno, uno dietro l’altro, dove tutti si occupavano di un particolare architettonico: chi le porte, chi le scale… una sorta di catena di montaggio. Un architetto iniziava a disegnare porte e finiva disegnando porte. E quando si trattava di inserire un’opera d’arte in un salone veniva semplicemente appeso un quadro alla parete. Nessuno aveva un’idea complessiva del progetto, era un ambiente molto diverso dall’Italia”. Così nel 1958 la giovane architetta torna a Milano, iniziando la sua personale ricerca di integrazione delle arti: “Un progetto deve nascere insieme all’artista se si vuole veramente integrare delle opere d’arte. Ma in America era veramente presto per questo concetto, dove sarebbe arrivato solo diversi anni dopo…”, precisa.
La giovane Nanda inizia a sperimentare con la luce nelle prime opere e a lavorare nell’architettura d’interni, aprendo il proprio studio nel 1959: “All’inizio è stato difficile, non avevo nulla. Il fatto che fossi una donna e di bell’aspetto è stato un problema in più. Spesso mi venivano proposti lavori ai quali ero davvero interessata in cambio di favori sessuali. È una cosa che non ho mai accettato perché ho sempre lavorato seriamente. Inoltre come sempre gli appoggi importanti sono maschili, senza i quali da sola non è affatto uno scherzo”.
“Il mio primo progetto è stata la Casa Bianca (Casa Pellegrini, 1960-63) che è stato un primissimo esperimento di integrazione artistica con opere di Lucio Fontana e Enrico Castellani. Ho progettato per una coppia di giovani uno spazio monocromo bianco con pareti illuminate dal quale i mobili tradizionali – quelli in legno e con i piedini in ferro – erano esclusi”. Nello stesso periodo Nanda incontra l’artista Piero Manzoni: “Un grande amore a prima vista ma anche grandi problemi perché lui non voleva che io lavorassi, soprattutto come artista. Era molto geloso del proprio lavoro ed era impossibile collaborare. Mi diceva: ‘Non siamo la famiglia Curie, l’artista sono io, te stai a casa’. All’epoca portavo già le minigonne, ho dovuto allungare le sottane altrimenti non avrei potuto uscire con lui!”. Nel 1959 diventa per qualche anno la ragazza di bottega dell’artista Lucio Fontana, con il quale progetta diverse mostre e installazioni.
Nanda ha bisogno di conferme progettuali sulla sua teoria di integrazione delle arti che tanto l’appassiona, così incontra Gio Ponti perché “era l’unico che da decenni aveva questa visione del lavoro completo, globale, dal grattacielo al cucchiaio. Fra noi è nata una grande amicizia, ci siamo capiti subito e ho avuto la possibilità di co-firmare un progetto con lui, cosa mai successa con altri”. Ponti firma l’architettura della “Casa sotto la foglia” (Casa Meneguzzo, 1965-69) mentre Nanda Vigo si occupa degli interni, trasformando il progetto di una piccola casa per le vacanze in una casa per la quotidianità: “Ho progettato una casa rivestita in piastrelle bianche e nel soggiorno – molto piccolo – ho integrato la camera da letto dei genitori inserendovi il letto matrimoniale, rivestito il peluche grigio per creare un contrasto hard/soft. Ponti chiamava quella stanza “Nativity room” perché secondo lui ‘solo una donna poteva fare questo progetto’. E nonostante le mie preoccupazioni, per fortuna gli era piaciuto”. Dopo il colore bianco, Nanda si occupa anche della Casa gialla (1970) per un cliente del sud che amava moltissimo il sole: “Era molto triste perché Milano era cupa, grigia, così ho esasperato il colore giallo. Era felicissimo”. O la casa per un mercante e collezionista d’arte che “diceva che i quadri più belli devono essere visti a lume di candela, ed è così che è nata la Casa nera (1970)”.
Dal suo ritorno in Italia Nanda Vigo sperimenta con la luce, usando neon colorati – i prediletti, per creare luce diffusa e impalpabile – , specchi, vetri, Perspex e da questo insieme nascono le sue opere: i “Cromotopi”, i “Trigger of the Space”, i “Light trees” oppure installazioni come l’”Ambiente cromotopico vivibile”. Quindi una ricerca continua fra arte, design e architettura. In quale ambito ha lavorato maggiormente? “Sempre l’arte. Mi sento più artista, adatto quello che ricerco nell’arte agli ambienti, al design”.
Con progetti come i grattacieli per le sepolture (1959), Nanda Vigo è sempre arrivata in anticipo sui tempi; “una disgrazia”, precisa: “Le torri erano una grande idea ma era troppo presto, è intervenuta persino la Curia e ne hanno parlato in America su Life”. La sua ricerca prosegue, il suo lavoro viene esposto in oltre 400 mostre monografiche e collettive in giro per il mondo, partecipando attivamente al lavoro del Gruppo Zero, concentrato sulla ricerca di nuove modalità espressive. Progetta anche molte performance, come quella sul matrimonio a Calice Ligure, nel 1972: “Mi sono vestita di bianco e avevo organizzato un pranzo di nozze sotto i portici nel centro del paese” oppure quella del ’78 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna: “siccome ho sempre amato gli animali, mi sono chiusa per una settimana in una gabbia con scimmie, cani, pappagalli e la mia tartaruga Cochi, facendo un diario di quello che succedeva”. Poi la ricerca sulla luce applicata al design, dove viene premiata con riconoscimenti come l’Industrial Design Award a New York per la lampada “Golden Gate” (1972), realizzata con “LED utilizzati unicamente dalla NASA” in quel periodo.
Una personalità poliedrica dunque, “che però è un tutt’uno”, sottolinea. “Adesso c’è la mania della specializzazione, come quelli che in America lavoravano su 20 tavoli… Una persona come fa a vedere in modo più ampio? O lo fa in maniera autonoma o è praticamente impossibile”. Lei ora progetta ancora? “Si, assolutamente. L’ultimo lavoro che ho fatto è stato una grande installazione ad aprile a Palazzo Reale per Alcantara”. Essere donna in questo settore: con gli anni la situazione è migliorata? “Non è migliorata per niente, ancora adesso… È una cosa che non è ancora finita e che non finirà”.