La competizione sana si impara da bambini

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“Mi piace fare le partite, soprattutto quando vinco io!

Però anche se perdo, mi diverto lo stesso.

E se perdono i miei compagni, io li consolo”

Ha già capito tutto Federico: l’importanza di saper perdere, di essere attivo membro di una squadra, di divertirsi giocando ma soprattutto l’importanza di essere competitivo rimanendo integro e leale. A 6 anni, in un tema di prima, Federico ha condensato quelli che dovrebbero essere i valori essenziali dello sport.

In realtà, la competizione sana non è un valore innato nel bambino anzi, a parte rare eccezioni, il bambino piccolo è egocentrico, vuole vincere a tutti costi, non ama far fatica e non si interessa granché delle emozioni dei suoi amici, anche perché l’empatia si sviluppa solo in adolescenza. Quindi la sana competizione va insegnata e le parole non sono sempre lo strumento migliore per farlo.

La competizione in un bambino non deve essere vista come un difetto, soprattutto se la sua ambizione è accompagnata dalla volontà di migliorarsi e dalla grinta di raggiungere un obiettivo. Perché la competizione possa essere una dote va però canalizzata correttamente e in modo equilibrato, affinché non si trasformi in comportamenti aggressivi e il piccolo atleta non diventi un piccolo tiranno spietato. Come si può fare?
Lo sport è uno strumento estremamente efficace in questo senso, a patto che allenatore e genitore siano complici.

Se infatti un genitore esalta in maniera esagerata ogni vittoria del figlio, tifa violentemente contro l’avversario invece che per la propria squadra, non trasmetterà sicuramente nulla di sano, ma solo di competitivo. La vittoria – e questo non è scontato – non è la sconfitta di un avversario, ma il raggiungimento di un obiettivo perseguito con fatica, quindi il bambino non deve imparare a godere dell’insuccesso altrui.

Quali accorgimenti adotta un buon allenatore organizzando una gara tra bimbi? L’abbiamo chiesto a Federico Croci, maestro di tennis del piccolo autore del tema, visto che il suo allievo sembra aver colto nel segno. “I presupposti di una sana competizione iniziano con l’identificazione del ruolo della controparte come una delle componenti della partita. Non si gioca contro – dice – ma si gioca con l’avversario perché è anche grazie a lui che i bambini possono esprimersi”. Così il rivale non è un ostacolo da dover superare, cosa che in caso di fallimento creerebbe frustrazione, “ma un elemento imprescindibile del gioco stesso”. Inoltre, dice ancora il maestro, “è fondamentale far capire ai bambini che il risultato non è il fine ultimo e che non saranno giudicati a seconda di ciò che ottengono in partita: devono sentire di avere il nostro appoggio sempre incondizionatamente dall’esito. Questo crea in loro serenità, motivazione e rispetto per tutti gli elementi costituenti il gioco”.

Alzi la mano chi almeno una volta non ha urlato ai propri figli di smettere di litigare, perché è importante andare d’accordo, darsi una mano, collaborare. Tante volte noi genitori consumiamo le corde vocali facendo prediche alla progenie nella speranza che imparino dei sani valori. Eppure i bambini imparano dal buon esempio e dall’esperienza. Sicuramente un’esperienza immediata e chiara è quella sportiva come ci insegnano Federico l’allenatore e Federico il bambino. Vogliamo che nostro figlio impari a collaborare con gli altri? Giocando a calcio imparerà con l’esperienza che senza passare la palla non si fa goal. Vogliamo che nostra figlia sia più sensibile? Durante una partita si troverà a consolare le compagne che sono state messe in panchina. Vogliamo che i nostri figli digeriscano le frustrazioni della vita? Perdendo una gara assimileranno questo concetto senza troppi sforzi mentali e senza prediche.

A soli 6 anni Federico ha imparato tutto questo e nonostante gli errori di ortografia si è portato a casa un bell’ottimo.

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