Un allarme silenzioso: la salute mentale dei professionisti sanitari

C’è un paradosso che attraversa gli ospedali europei, e che assume i contorni di un allarme silenzioso: chi cura fatica a prendersi cura di sé.
Un recente studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), condotto su oltre novantamila tra medici e infermieri appartenenti a ventinove paesi, evidenzia un malessere diffuso. Sebbene l’attenzione al benessere psicologico sia in crescita in molti contesti lavorativi, ancora fatica ad affermarsi in quelli sanitari.

Il malessere del personale sanitario

Un medico su tre e un infermiere su quattro riferiscono sintomi di ansia o depressione. Un’incidenza circa cinque volte superiore rispetto a quella della popolazione generale. Si stima infatti un 32% contro un 6% della media europea.
Dietro a questi numeri si nasconde una realtà complessa, che comincia dal sovraccarico operativo. Turni lunghi, notti in corsia, mancanza di personale, richieste costanti e reperibilità frequente sono elementi che si potrebbero definire endemici delle professioni sanitarie. A ciò, si somma l’esposizione emotiva, derivante non solo dalla sofferenza dei pazienti, ma anche da quella delle famiglie. Tanto che si parla addirittura di compassion fatigue, indicando con questo termine una fatica generata proprio dalla prolungata esposizione all’assistenza dei malati.
Si aggiungono poi le pressioni organizzative – date da prassi sempre più regolate e burocratizzate – il difficile equilibrio tra vita lavorativa e familiare e una cultura del lavoro che ancora fatica ad accogliere il disagio psicologico. Come se chiedere aiuto – per chi cura – fosse un atto incompatibile con la propria identità professionale.

Un quadro complesso

Accanto alla sofferenza psichica, la ricerca dell’OMS evidenzia anche i rischi a cui i professionisti sanitari sono esposti: minacce e violenze da parte di pazienti e loro familiari sono frequenti, così come condotte discriminatorie e lesive all’interno delle equipe. Nell’ultimo anno, il 10% dei lavoratori ha riferito di aver subito violenze fisiche e/o molestie sessuali, mentre uno su tre è stato vittima di bullismo o minacce sul lavoro.

Nonostante ciò, l’indagine rivela che tre medici su quattro e due infermieri su tre esprimono un forte senso di scopo e significato correlato al loro lavoro. Questa diffusa soddisfazione non deve tuttavia trarre in inganno, ma, anzi, far riflettere.
Un ingaggio così forte rischia infatti di far sottostimare i rischi associati al proprio ruolo, rimandando la cura di sé in virtù di un lavoro che viene spesso percepito come una vera e propria missione. Non è un caso che la stessa ricerca riveli che un medico su quattro lavori più di 50 ore settimanali. Frequentemente, nel mondo ospedaliero gli straordinari sono la normalità. Proprio in virtù di una dedizione al lavoro che mette sotto scacco.

Soluzioni possibili

L’OMS suggerisce una strategia chiara per arginare questi fenomeni: migliorare la flessibilità dei turni, gestire gli straordinari e i carichi di lavoro eccessivi, formare i leader, ampliare l’accesso al supporto psicologico e mantenere monitorato lo stato di benessere degli operatori sanitari.
È tempo di considerare la salute mentale di medici e infermieri come un indice di qualità delle cure. Professionisti sotto stress costante, che faticano a dormire e che sono sovraccarichi da un punto di vista emotivo, non possono provvedere agli altri in maniera efficace. Si espongono, oltretutto, a errori e incidenti in un ambito nel quale la loro gravità è potenzialmente irreparabile.
Ma per affrontare davvero questo fenomeno non bastano misure organizzative o protocolli di prevenzione: serve un cambiamento culturale profondo. Bisogna superare il mito dell’invulnerabilità di chi cura, riconoscere il diritto alla fragilità e legittimare la richiesta di aiuto come parte integrante della professionalità. Perché è solo proteggendo la salute mentale di chi cura che è possibile proteggere la salute collettiva e promuovere una sanità che sia davvero dalla parte delle persone.

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