Le mediche partigiane, chi erano e cosa hanno fatto

Durante la Resistenza italiana, tra il 1943 e il 1945, le donne hanno contribuito alla lotta contro il nazifascismo. Alcune lo fecero con le armi, altre nella rete logistica, molte nel supporto sanitario come mediche partigiane. La loro attività fu tanto fondamentale quanto poco documentata.

Renata Fabbri, Anna Malatesta, Luisa Cagni, Giovanna Righini, Pina Pantaleo e Gina Fabbri sono state tra le protagoniste di questo fronte silenzioso, esercitando la medicina in condizioni estreme, fuori da ogni protocollo istituzionale, spesso senza strumenti, in luoghi nascosti o improvvisati. I loro nomi compaiono raramente nei libri di storia, nelle celebrazioni ufficiali, nei manuali scolastici. Eppure in un’epoca in cui la memoria si frammenta e si digitalizza, restituire voce a queste donne è un atto di giustizia storica.

Ritratti delle mediche partigiane

Renata Fabbri (1906–1976) è stata una chirurga con esperienza ospedaliera. Dopo l’8 settembre 1943 è entrata in contatto con una brigata partigiana dell’Italia settentrionale. Le sue competenze si sono rivelate decisive per creare una rete sanitaria stabile, che ha permesso ai combattenti di ricevere cure immediate senza dover abbandonare il territorio. In alcuni casi, è stata lei a occuparsi anche del trattamento di traumi psicologici. In una testimonianza raccolta da una nipote, si legge che “ai ragazzi bisognava cucire le ferite ma anche rimettere insieme i pensieri”. Fabbri, dopo la guerra, si è impegnata nell’assistenza psichiatrica ed è stata tra i primi medici a promuovere un approccio integrato alla salute mentale postbellica.

Anna Malatesta (1920–2008) si è laureata in medicina poco prima dell’inizio dell’occupazione tedesca. È entrata nella brigata Garibaldi e ha operato nella zona appenninica emiliana. La sua attività sanitaria ha incluso anche la gestione logistica di rifugi, l’approvvigionamento di farmaci e la formazione di personale non medico tra i partigiani, affinché potessero fornire assistenza anche in sua assenza. Diverse testimonianze hanno documentato la sua abilità nel realizzare interventi con mezzi di fortuna: compressori manuali, bisturi improvvisati, anestesie sommarie. Nel dopoguerra, è diventata dirigente in ambito sanitario pubblico e ha contribuito all’elaborazione dei primi protocolli di medicina d’emergenza in contesto civile.

Luisa Cagni (1914–2006) è stata medico di brigata in Toscana. La sua attività si è svolta soprattutto nella Val d’Elsa e nella zona del Chianti. La documentazione esistente — per lo più conservata in archivi locali — mostra che Cagni non si è limitata all’assistenza sanitaria: ha coordinato il trasporto clandestino di forniture mediche, ha organizzato i turni dei soccorritori e ha verificato le condizioni igieniche dei rifugi. In alcuni casi, secondo alcune testimonianze, ha anche eseguito operazioni chirurgiche in aree boschive. Dopo il 1945 ha rifiutato la partecipazione a eventi celebrativi e si è ritirata dalla vita pubblica.

Giovanna Righini (1920–2014) è stata una giovane medica attiva in Piemonte. Ha operato tra la Val Pellice e la Val di Susa, aree con un’intensa attività partigiana. Ha collaborato con un gruppo di medici militari disertori e insieme hanno allestito un presidio di assistenza. Ha utilizzato una bicicletta per muoversi da un punto all’altro, spesso trasportando garze, disinfettanti e siringhe. Dopo la guerra, si è specializzata in medicina preventiva e ha lavorato a lungo nella promozione della salute materno-infantile.

Pina Pantaleo (1917–2010) ha operato nel Piemonte meridionale. Dopo aver assistito alla distruzione dell’ospedale locale da parte delle truppe tedesche, ha scelto di unirsi a una brigata attiva tra le Langhe. La sua formazione in ginecologia l’ha resa una figura chiave anche per l’assistenza a donne partigiane e civili. Ha curato non solo i combattenti ma anche le madri, i bambini nascosti nei casolari, le vittime di violenze sessuali. Dopo la guerra, è diventata una figura autorevole della ginecologia italiana.

Gina Fabbri (1900–1974) si è unita alla Resistenza quando due dei suoi fratelli sono stati deportati. Il suo ruolo è stato centrale nella zona dell’Appennino tosco-emiliano. Ha coordinato una rete di cura informale che ha coinvolto infermiere volontarie, medici antifascisti e farmacisti clandestini. Dopo la guerra, ha partecipato alla redazione di un documento programmatico che ha anticipato i principi dell’universalità dell’assistenza sanitaria, molto simili a quelli che saranno alla base della legge 833 del 1978 (istituzione del Ssn).

Condannate all’oblio

La memoria delle mediche partigiane è ostacolata da una scarsa produzione documentale. La maggior parte di queste donne non lasciò diari o memorie pubblicate. Le testimonianze disponibili sono in genere frammentarie, affidate a racconti orali, lettere private, documenti interni al movimento partigiano o alle associazioni di reduci. La narrazione della Resistenza si è inoltre consolidata attorno a figure maschili e a episodi militari. La centralità dell’azione armata, unita a una certa retorica eroica del combattente, ha lasciato poco spazio a forme di resistenza non militare, come quella sanitaria, e ancora meno se esercitata da donne. Quella della Resistenza è anche la storia di cosa si è scelto di ricordare e cosa no. Le mediche partigiane non erano simboli comodi: professioniste, autonome, impegnate in ruoli ad alta responsabilità, talvolta critiche verso le gerarchie, difficilmente riconducibili a immagini stereotipate.

Recuperare le loro storie oggi non significa mitizzarle, ma rimettere a fuoco un pezzo dimenticato della nostra storia perché la loro azione sanitaria non è stata accessoria, ma strutturale alla sopravvivenza del movimento resistenziale. Occorre infatti restituirgli acora parte della sua complessità sociale e riconoscere che la lotta contro il fascismo è stata anche una lotta per la dignità della cura, per l’accesso alla salute, per il diritto di tutte e tutti a sopravvivere in un contesto di guerra.

A distanza di ottant’anni gli archivi sono ancora parziali, le fonti frammentarie. Tuttavia, un lavoro di raccolta sistematica e di analisi storica, al di fuori di logiche celebrative, è possibile. E necessario. Per completare il racconto della Resistenza. E per comprendere fino in fondo il ruolo che le donne hanno avuto nella costruzione della democrazia italiana.

***

La newsletter di Alley Oop

Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.

Per scrivere alla redazione di Alley Oop l’indirizzo mail è alleyoop@ilsole24ore.com

  • Monica |

    Buongiorno dottoressa Arianna, perché credo che entrando nel suo studio la chiamino dottoressa e non dottore. E d’altra parte proprio l’Accademia della Crusca ci dice che il termine femminile “medica” è lemmatizzata nel Dizionario universale critico-enciclopedico della lingua italiana dell’abate Francesco D’Alberti di Villanuova (1797-1805) e nel Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini come “s.f. di medico” con il significato di “Donna che esercita la medicina o ha una certa pratica nella cura delle malattie o che si dedica a curare una persona malata o ferita”. Se ne hanno esempi in Boccaccio, Il Corbaccio (“Sole che le ’ndovine, le lisciatrici, le mediche e i frugatori, che loro piacciono, le fanno, non cortesi, ma prodighe”); nel Tasso, La Gerusalemme liberata (“Tu chi sei, medica mia pietosa?”); nei Panegirici di Emanuele Tesauro (“mille personaggi diversi di mendica e medica, di matrona e di madre, di padrona e di ancella, di prefica e di sepellitrice”); nell’Angelica di Pietro Metastasio (“La medica cortese / non volle ch’altra mano al fianco infermo / s’accostasse giammai”). E come Sole 24 Ore dobbiamo far uso di un italiano corretto, indipendentemente dalle correnti politiche e dalle mode. Un’ultima cosa: sarebbe auspicabile che le donne non si vergognassero della declinazione al femminile della loro professione. Buon lavoro, dottoressa.

  • Arianna |

    Bellissimo articolo peccato vedere anche ilsole cedere al conformismo woke “medica”. Le donne in questione ci tenevano ad essere un medico xhe e una professione. Le avevano chiamate gia le ” mediche delle galline” a sufficienza. Una delle prime donne medico collaboratrice di Rlisabeth Blackwell rifiutava la dicitura doctress invece di doctor specificando che quello che faceva era una professione e non necessitava di essere declinata. E capiva perfettamente che. Achiamarti al femminile non ti stanno facendo un piacere. Firmato Arianna, un medico

  • UGO POLESE |

    Sono perfettamente daccordo con l’affermzione che si è parlato molto poco delle donne che hanno operato nella Resistenza a qualsiasi livello e campo di azione.
    Allora, c’era bisogno di tutto e di tutti, per questo le donne non mancarono e non vennero meno nei compiti di loro scelta o di quelli loro assegnati.
    In questo articolo si ricordano sei donne medico impegnate nella Resistenza che ebbero un ruolo essenziale nel-
    l’assistenza sanitaria in condizioni di estrema difficoltà e di costante pericolo.
    Giusto ricorderle e divulgarle con altre migliaia di donne che seppero dare un enorme contributo alla lotta contro il nazifascismo, dando ospitalità e nascondendo i perseguitati politici o persone inermi col torto di essere ebree, facendo le staffette prima e durante la lotta partigiana, combattendo in prima linea e dando il loro contributo intellettuale al dibattito ed alla realizzazione della nostra Costituzione.
    A tutte loro grazie per ciò che hanno fatto e per l’eredità lasciata alle generazioni future, con l’auspicio di battersi sempre per la pace, la libertà, la democrazia, la solidarietà ed il diritto al lavoro.

  Post Precedente
Post Successivo