Special Olympics, 1.500 atleti con disabilità intellettive da più di 100 Paesi per le gare a Torino

Da Torino a Santiago: la cerimonia di chiusura dell’edizione dei Giochi Invernali Special Olympics 2025 del capoluogo piemontese ha sancito il passaggio di testimone alla capitale del Cile per la prossima edizione. E se quest’anno è stata la prima volta dell’Italia come Paese ospitante, quella del 2027 sarà la prima volta in cui i giochi mondiali dedicati agli atleti con disabilità intellettive si svolgeranno nell’emisfero meridionale del globo.

In Italia per la prima volta

Soffiava un vento nuovo dall’8 al 15 marzo sulle piste da sci del Sestriere, a Bardonecchia, a Pragelato, negli stadi di Torino. «Ci abbiamo impiegato vent’anni a portare i giochi di Special Olympics in Italia e siamo riusciti a creare qualcosa di unico, che cambierà profondamente la cultura del nostro Paese. Abbiamo portato 1.500 atleti da più di 100 Paesi e abbiamo regalato loro l’esperienza italiana composta di creatività, entusiasmo e qualità del dettaglio. Da oggi in poi Special Olympics sarà conosciuta anche da noi e avrà la possibilità di crescere e fare la differenza nel mondo» commenta Angelo Moratti, presidente di Special Olympics Italia.

A Torino è anche atterrato l’Air Force 2 con la delegazione americana di una trentina di persone, guidata dalla moglie del vicepresidente Vance, Usha Vance. Special Olympics, infatti, è nata negli anni ’60 negli Stati Uniti per iniziativa di Eunice Kennedy Shriver ed oggi continua ad essere molto attiva nel Paese. Nonostante il disimpegno dell’amministrazione Trump sui temi di diversity, gli Usa hanno voluto comunque presenziare con una delegazione ufficiale, mentre si cerca di capire ancora come i tagli dei fondi alle iniziative scolastiche per ragazzi con disabilità possa avere un impatto anche sull’attività di special Olympics.

I numeri dei Giochi Invernali Special Olympics 2025

Otto le discipline sportive in gara: sci alpino, sci nordico, snowboard, corsa con le racchette da neve, floorball, pattinaggio artistico su ghiaccio, pattinaggio di velocità su ghiaccio e danza sportiva. E poi 621 coach, 3.000 volontari, migliaia di persone tra staff, personale medico, familiari, media, ospiti, delegati e oltre 300.000 spettatori.

Fin qui i numeri, che dicono tanto sull’imponenza di partecipazione e macchina organizzativa. Ma sullo sfondo bianco della neve e degli stadi a risaltare sono i give me five tra gli atleti di ogni nazionalità, dal Kenia al Canada, dalla Giordania all’Australia, al Giappone, all’Iraq, che parlano una lingua comune fatta di sguardi, gesti, abbracci. Di relazione. E di competizione.

Che io possa vincere

«Io voglio vincere la medaglia d’oro per me e per dedicarla alla mia fidanzata Emma». Seduto insieme ai suoi compagni in attesa delle qualificazioni Enrico Battisti, trentenne atleta padovano del team Sport 21, è in pista con la divisa azzurra dello sci alpino. E no, rimanere giù dal podio non è un’opzione. Perché Enrico è un atleta e come tutti gli atleti indosserà gli sci per vincere. Si batterà comunque con lo spirito del gladiatore, come vuole il motto del movimento: “Che io possa vincere, ma se non riuscissi che io possa tentare con tutte le mie forze”.

A fondo pista, dopo la discesa, Lisa Guerrera, 25 anni, operaia di Lecco, sotto il casco ha gli occhi che brillano: «La gara è andata bene, ma domani vado più veloce. Mi diverto un mondo e sono soddisfatta di me, perché sono stata convocata ai mondiali». Per inciso, vincerà l’oro nel gigante e l’argento in SuperG.

Le origini di Special Olympics

Sono persone che si confrontano con la sfida di tutti coloro che praticano sport a livello agonistico. Commenta Alessandro Ossola, atleta paralimpico presente a Torino per promuovere la connessione tra Paralimpiadi, Special Olympics, Olimpiadi «nessuno scende in campo per perdere, ma bisogna allenare l’atteggiamento mentale, gestire la voglia di vincere e la frustrazione quando non si riesce».

Come già accennato, il movimento nasce nel 1968, negli USA, dall’intuizione di Eunice Kennedy Shriver, che aveva una sorella con una disabilità intellettiva con la quale praticava diversi tipi di sport in un’epoca in cui i disabili erano relegati in casa. Oggi Special Olympics è un’organizzazione che coinvolge più di 3,5 milioni di atleti con disabilità intellettive in 227 programmi statali e nazionali e organizza oltre 50.000 competizioni sportive ogni anno. Questo perché per Special Olympics un mondo più inclusivo inizia con lo sport, strumento educativo e formativo il cui impatto si estende ben oltre il campo di gara. Non esiste un limite di età e neanche un livello minimo di capacità richiesto.

Obiettivo autonomia

Le famiglie sono i primi supporter degli atleti, le vedi a fondo pista nelle gare sulla neve o seduti sugli spalti degli stadi Inalpi Arena e PalaTazzioli di Torino, dove si svolgono le attività indoor. Ma restano defilati, e c’è una ragione. Spiega Carla Martinelli, capodelegazione dello sci alpino e da oltre 30 anni coordinatrice tecnica della nazionale «I familiari e gli amici degli atleti sono il supporto e il ponte determinante per il successo della nostra azione, d’altra parte la loro vicinanza in alcune situazioni può essere eccessivamente condizionante per i loro cari, da qui la scelta di farli dormire anche in alberghi differenti. Non dimentichiamo che il primo ruolo che gioca lo sport è la costruzione dell’autonomia».

Le fa eco Elena Viviani, head coach e sportiva: «In Special Olympics ho acquisito la consapevolezza di quanto guardare alle abilità di tutte le persone porti vantaggi, a partire dal rafforzamento dell’autostima, della consapevolezza di sé, della fiducia in se stessi». Ed è, appunto, la conquista dell’autonomia uno dei cardini della missione del movimento: «Ricordo quando sono stata sgridata da un genitore perché stavo aiutando il figlio a portare l’attrezzatura. Una delle soddisfazioni più grandi? Quando i più piccoli ti guardano e ti dicono in coro: sci sci sci! E pensare che a 40 anni mi sentivo vecchia e oggi eccomi qua» sorride Anna Maria Mariani, 79 anni, coach e sciatrice.

I volontari

Mentre camminiamo a bordo pista e poi negli stadi, la squadra dei volontari si muove veloce e supporta nelle azioni più semplici, come servire in mensa o aiutare gli atleti a indossare e togliere l’attrezzatura. E in quelle più complesse, per esempio gestire 900 paia di sci da inserire nei container deposito dopo la gara. Li distingui per le giacche verdi costellate di “pin”, le spille che si scambiano con gli atleti. Sono giovani delle scuole in alternanza scuola-lavoro o dipendenti di aziende partner, come Coca-Cola, socio fondatore di Special Olympics  e sponsor globale da allora fino almeno al 2031.

«Con Special Olympics condividiamo l’idea che lo sport abbia il potere unico di guidare il cambiamento e abbattere le barriere. Ognuno di noi può contribuire alla costruzione di una società più inclusiva. Per questo motivo, siamo entusiasti di offrire il nostro supporto agli atleti, aiutandoli a raggiungere i loro traguardi più ambiziosi», dichiara Cristina Camilli, direttrice relazioni istituzionali, comunicazione e sostenibilità di Coca-Cola Italia.

Azione di brand reputation o autenticità di valori? «Siamo una grande azienda, abbiamo la responsabilità di far capire che l’inclusione funziona anche nel mondo del lavoro e perseguiamo questo obiettivo anche contribuendo al successo e alla visibilità di eventi come questo».

E’ italiana la prima scuola nel mondo a entrare in Special Olympics

All’Inalpi Arena, durante le partite di floorball – una sorta di hockey da palestra – lo stadio rimbomba per il tifo. Qui si incontrano squadre unificate e miste: nello stesso team giocano atleti e atlete, con e senza disabilità. Nella sala dove aspettiamo gli azzurri, sono seduti diversi allenatori, tra questi Rocky Kenaruzo, Namibia. Per la sua squadra è stata la prima volta in aereo, la prima volta ai Mondiali. Uno dei suoi giocatori si è allenato senza scarpe, facendosi venire vesciche ai piedi a causa del terreno roccioso e del calore.

Una storia fra tante, come quella di Niasha, ragazzo dello Zimbawe che fino ad 8 anni fa non aveva famiglia, lavoro e casa. In Special Olympics ha trovato tutte e tre le cose: ora ha una casa, una famiglia nel team con cui lavora e un lavoro. E commenta: «Torno a casa anche con le scarpe per andare a lavorare».

Ed eccola, finalmente, la squadra italiana,  trionfante dopo aver battuto la Germania ed è ancora un darsi il 5 e saltare e festeggiare con tutti. Sono dieci tra atleti e partner dell’Istituto di Istruzione Superiore Gasparrini-Righetti di Melfi, in provincia di Potenza: è la prima scuola nel mondo a entrare in Special Olympics, guidata dalla professoressa di scienze motorie Adriana Loconsolo. Spiega orgogliosa: «Siamo venuti qui per dimostrare che è possibile, non siamo una squadra con esperienze sportive di competizione importanti e ci stiamo preparando da settembre, ma siamo riusciti ad arrivare ai Mondiali. Perché lo facciamo? Magari qualcuno di questi atleti e atlete sui banchi di scuola pecca, ma in campo sono dei leoni, mettono tutto il loro spirito agonistico e sono tutti uguali.  Sono loro che scelgono di aderire a queste attività. Rientrano a scuola tre volte a settimana per gli allenamenti nelle ore extra curriculari e giocano con partner, cioè atleti normodotati, secondo il modello dello sport unificato. Il messaggio che vogliamo portare è che la scuola si fa anche fuori dalle aule e stare in un contesto così, con persone che vengono da tutto il mondo, è scuola di vita. E’ qui che si disegna il futuro per chi l’inclusione la pratica davvero, tutti i giorni».

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  • Ettore politi |

    Avevo già letto questo articolo sul blog del Sole 24 Ore, colpito dalla sua profondità e bellezza, ma non avevo notato chi lo avesse scritto. Ora capisco: è di Elena Delfino. E tutto torna. La sua scrittura mi ha restituito la speranza che esistano ancora giornalisti autentici, non schierati, non di parte, capaci di raccontare la realtà con intelligenza, cuore e uno stile colto e raffinato. In un tempo in cui l’informazione sembra spesso divisa tra destra e sinistra, leggere le sue parole è stato come ritrovare un giornalismo vero, elegante, libero. Un articolo meraviglioso che fa la differenza e mi ha fatto riacquistare fiducia nella forza della narrazione onesta.

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