Violenza economica, perché è importante il riconoscimento da parte della Cassazione

Non lascia segni visibili come le percosse, è subdola e poco riconoscibile, ma la violenza economica mette ugualmente le donne in stato di soggezione rispetto al partner, limitandone l’autonomia e l’autodeterminazione. Una donna su tre, tra quelle che ricorrono ai centri anti violenza, la subisce. Questa forma di violenza sulle donne non è prevista esplicitamente nel nostro ordinamento ma la Cassazione, con una recente sentenza (n. 1268/25), l’ha individuata come forma specifica, richiamando norme sovranazionali come la Convenzione di Istanbul per l’eliminazione di ogni forma di violenza ratificata dall’Italia nel 2013.

Un passo avanti importante da parte della magistratura che arriva a poca distanza da un’altra sentenza in materia di violenza sulle donne, della Corte di Assise di Modena, che ha fatto molto discutere, e che, tra l’altro, ha parlato di “comprensibilità umana” dei motivi che hanno portato un uomo a compiere un doppio femminicidio, suscitando critiche e perplessità.

Per la prima volta un riconoscimento specifico sulla base delle norme sovranazionali

Il riconoscimento a tutto tondo della violenza economica compiuto dalla sentenza della Cassazione (presidente Gaetano De Amicis, relatrice Paola Di Nicola Travaglini) è, invece, un passo importante anche considerato il fatto che, in altre precedenti pronunce, la Corte riconosceva questa forma di violenza, ma assieme ad altre forme come quella fisica e psicologica, e senza collegarla alle norme sovranazionali ed europee.

Scrive la Corte che gli atti di violenza suscettibili di creare pregiudizio di tipo economico all’interno delle relazioni familiari sono contemplati «in un quadro di definizioni che non compaiono nei tradizionali testi normativi di produzione interna ma che tuttavia, per tramite del diritto internazionale, sono entrate a far parte dell’ordinamento e influiscono sull’applicazione del diritto, anche attraverso l’obbligo di interpretazione conforme che impone, ove la norma interna si presti a diverse interpretazioni o abbia margini di incertezza, di scegliere quella che consenta il rispetto degli obblighi internazionali».  In questo contesto la sentenza richiama sia la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sia la direttiva Ue del 2012 sui diritti minimi, assistenza, protezione della vittime di reato.

D.i.Re: ben venga il richiamo alla Convenzione

Reazioni positive da parte dei rappresentanti dei centri anti violenza: «Una sentenza della Corte di Cassazione che riconosce esplicitamente la violenza economica, come espresso dalla Convenzione di Istanbul, è senz’altro – commenta Elena Biaggioni, avvocata e vicepresidente della rete D.iRe – Donne in rete contro la violenza – un segnale importante. Ben venga in particolare il richiamo alle definizioni presenti nella Convenzione che comprendono la violenza economica e la disparità di potere tra uomo e donna che è così radicata anche dal punto di vista della capacità economica. Solitamente il riconoscimento della violenza economica è limitato ai procedimenti relativi al contributo al mantenimento, molto raramente se ne parla come forma di violenza specifica che si aggiunge alla violenza fisica ed economica. Di violenza economica si parla poco: impedire alla donna di lavorare, controllarne le spese, impedirle autonomia, imporre oneri e impegni finanziari, sono tutte condotte che limitano la libertà delle donne».

La violenza economica, peraltro, è un tipo di violenza difficile da riconoscere perché spesso camuffata da una forma di attenzione, di amore da parte dell’uomo che talvolta, con le buone, convince  la donna a non studiare, non lavorare, a non accettare un’occupazione, dietro rassicurazioni, pressioni, ricatti psicologici. Alle finanze della famiglia, le dice, ci penserà lui e lei potrà dedicarsi totalmente ai figli. Alla donna dunque viene impedito di avere una propria autonomia finanziaria, di partecipare alla gestione economica della famiglia, financo di gestire, in alcuni casi, le sue proprietà. Tra le vittime ci sono donne di ogni età e di ogni ceto sociale; la spirale in cui cadono le porta a indebitarsi, a non avere liquidità, fino ad arrivare a vivere di stenti.

Lui ostacolava la sua emancipazione

Ma veniamo ai fatti oggetto della sentenza.  Un uomo è stato condannato dal tribunale e dalla Corte di Appello di Torino per maltrattamenti ai danni della moglie. La Cassazione ha respinto il ricorso dell’imputato che ha provato a ribaltare la sentenza. Alla base del rigetto del ricorso, sono state riscontrate dalla Cassazione condotte violente, sessualmente umilianti, minatorie, controllanti e denigratorie, anche dopo la separazione. Condotte che sono durate 20 anni. La vittima è stata anche minacciata di morte, assieme alla sorella nel corso di telefonate registrate dal figlio.

La donna ha inoltre messo in luce le azioni dell’imputato che ostacolavano la sua emancipazione economica, negandole di intraprendere percorsi formativi e di trovare un’occupazione lavorativa. Per lui era meglio che lei restasse in casa con i figli, ma poi la utilizzava come contabile nella sua impresa senza versarle stipendio o condividere gli utili. Quando lei ha trovato un’occupazione nel settore turistico, lui le ha  impedito di continuare, chiamandola in continuazione, intimandole di tornare a casa davanti a colleghi e clienti.  La ricostruzione dei fatti fornita dalla donna è stata riscontrata dalle testimonianze dei figli e dei parenti di lei.

Quando la mancata autonomia economica non è una scelta

«Le condotte dell’imputato volte a osteggiare la coniuge – dice la sentenza – nella ricerca di un’attività lavorativa sottoponendola peraltro  a controllo degli spostamenti attraverso l’installazione di una telecamera sul perimetro esterno dell’abitazione, e a non consentirle di coltivare e sviluppare un quadro di relazioni con persone esterne alla famiglia, a imporle un ruolo casalingo sulla base di una rigorosa e discriminatoria ripartizione dei ruoli, a sottrarsi gestione domestica e familiare delegandone interamente le incombenze alla coniuge così da non consentirle altra soluzione che quella di abbandonare le proprie ambizioni professionali ed essere da lui mantenuta, a non remunerare le attività svolte nell’interesse dell’azienda familiare»  costituiscono «tutti comportamenti che sono obiettivamente finalizzati a limitazione dell’autonomia economica della persona offesa».

«Spesso – conclude Biaggioni – le donne che non hanno un lavoro vengono descritte e percepite come mantenute, mentre il marito che lavora fuori casa è un uomo che si sacrifica per la famiglia. In tal modo disconoscendo qualsiasi valore al lavoro di cura e non approfondendo altri aspetti della gestione economica della vita coniugale. Troppo spesso la mancata autonomia economica non è una scelta e si trasforma in oppressione, controllo, privazione della libertà. Una donna su tre tra quelle accolte dai Cav gestiti dalle associazioni aderenti a D.i.Re riferisce violenza economica. Che se ne parli anche nelle sentenze è importante».

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