Libia, giochi di potere sulla pelle delle donne

Il 2024 in Libia si è chiuso con un giro di vite alle libertà individuali, in particolare quelle delle donne.

Emad al-Trabelsi, ministro dell’Interno del Governo di unità nazionale (Gnu) con sede a Tripoli, ha annunciato nuovi progetti all’insegna della repressione tra cui: il velo obbligatorio a donne e ragazze a partire dai 9 anni, limitazione alle interazioni tra uomini e donne, controlli sui tagli di capelli e l’abbigliamento dei giovani e restrizioni alla mobilità delle donne senza un tutore maschio.

L’annuncio non è sostenuto da alcuna legge o memorandum ufficiale (l’uso dell’hijab o del niqab, ad esempio non è obbligatorio) e, secondo gli osservatori internazionali, i proclami di Al-Trabelsi per “difendere la moralità” altro non sarebbero che un pretesto per stringere la sua presa sul Paese. I sostenitori dei diritti civili avvertono che, se entrassero in vigore, tali regole potrebbero potenzialmente violare le libertà personali, in un Paese ancora alle prese con l’instabilità politica.

Per Bassam Al Kantar, ricercatore sulla Libia di Amnesty International si tratta di «un’escalation pericolosa dei livelli già soffocanti di repressione cui sono sottoposte le persone che in Libia non si adattano alle norme sociali dominanti».

Parlando a Misurata, il primo ministro libico, Abdel Hamid Aldabaiba, ha preso le distanze dai commenti fatti dal suo ministro dell’Interno. Le dichiarazioni sono state derubricate a “chiacchiere” ma, dicono gli esperti, strizzerebbero l’occhio ai gruppi armati che esercitano il controllo sul Paese in una Libia divisa tra amministrazioni rivali (con due governi separati) e arrivano in un momento di difficoltà economica. Arrivando quindi a essere un modo per rafforzare la presa sul Paese nordafricano.

Nuove regole

Durante una conferenza stampa, che si è tenuta a Tripoli nel mese di novembre, al-Trabelsi, ministro dell’Interno del Governo di unità nazionale (riconosciuto a livello internazionale), ha annunciato di volere introdurre una «unità per la protezione della moralità pubblica», ovvero una “polizia morale” con il compito di «far rispettare le tradizioni della società libica» per le strade.

Con il pretesto di «custodire la moralità», il ministro ha liquidato la libertà personale come incompatibile con la società libica e proposto nuove regole che includono il velo obbligatorio per donne e ragazze dai nove anni in su; il divieto (sempre per le donne) di viaggiare senza il permesso di un tutore maschio; il divieto a uomini e donne di mescolarsi nei luoghi pubblici, la messa al bando di acconciature considerate inappropriate per gli uomini; la chiusura di sale narghilè e barbieri non conformi alle nuove regole e altre strategie ancora per limitare le tendenze straniere nella moda e nei media. Inoltre ha dichiarato di volere discutere con il primo ministro, Abdul Hamid Dbeibah, e il ministro dell’Istruzione l’obbligatorietà dell’hijab nelle scuole dalla quarta elementare in poi.

A seguito di questi proclami, il primo ministro libico, Abdel Hamid Aldabaiba, ha preso le distanze dalle dichiarazioni di al-Trabelsi, chiarendo che non c’è bisogno di una nuova politica sulla morale pubblica in quanto la maggior parte dei libici è «naturalmente conservatrice», come riporta il Libya Herald e questo conservatorismo deriva dall’educazione familiare, non dalla coercizione.

Il Gnu però recentemente ha introdotto una serie di misure che nella pratica servono a consolidare la presa del governo sulla vita pubblica e privata e a limitare alcune libertà personali. Ad esempio ha adottato la delibera n. 422 del 2024, che istituisce il Dipartimento generale per la protezione della morale pubblica presso il ministero dell’Interno a cui sono stati concessi ampi poteri per monitorare gli spazi pubblici, come caffè, teatri, hotel e ristoranti e garantire il rispetto delle leggi che prendono di mira i cosiddetti crimini morali.  

Inoltre nel luglio 2024 il Consiglio presidenziale ha istituito l’Autorità per la protezione della moralità pubblica, nominando il maggiore generale Mohamed Abu Hajar alla guida dell’organismo.

Sempre il primo ministro Aldabaiba ha assicurato che il nuovo decreto sulla morale pubblica non pregiudicherà le libertà. Prese insieme tutte queste azioni, però, riflettono una certa volontà sistematica da parte del governo di Tripoli – riconosciuto a livello internazionale – di limitare le libertà e rafforzare il controllo sulla società libica.

Le reazioni

I gruppi per i diritti umani si sono subito pronunciati sulle nuove politiche definendole «profondamente allarmanti», temendo che rappresentino il segnale di un ritorno a politiche autoritarie.

L’idea di una polizia morale, infatti, non è del tutto nuova in Libia. Durante il regime di Muammar Gheddafi, erano presenti varie forme di controllo sociale, anche se non strutturate in una forza di polizia morale autonoma. Il controllo era esercitato principalmente attraverso comitati rivoluzionari e altre unità paramilitari, che spesso imponevano norme di decoro e moralità in modo informale.

Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, la Libia ha vissuto una fase di maggiore liberalizzazione, ma condizionata dalla presenza di gruppi armati e autorità locali con visioni eterogenee e marcate differenze tra l’est e l’ovest del Paese.

Amnesty International prende sul serio questo progetto. Il ricercatore Bassam Al Kantar denuncia una «pericolosa escalation dei già soffocanti livelli di repressione che affrontano coloro che in Libia non aderiscono alle norme sociali dominanti». Il progetto «viola anche gli obblighi della Libia ai sensi del diritto internazionale», ha aggiunto. La Commissione Nazionale per i Diritti Umani in Libia, un’organizzazione locale per i diritti civili, in una nota pubblica ha bollato le intenzioni di Al-Trabelsi come giuridicamente infondate.

Secondo l’associazione, il ministro non ha spiegato la base giuridica di queste misure che, non solo violano vari diritti (privacy, espressione, associazione), ma vanno contro la stessa la Costituzione provvisoria della Libia e altri numerosi trattati internazionali sui diritti umani, compresa la risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza, oltre alla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e del Protocollo di Maputo sui diritti delle donne in Africa.

Amnesty International ha documentato a lungo come le autorità libiche abbiano promosso e legittimato i leader delle milizie che si sono rese responsabili di violazioni del diritto internazionale, invece di garantire l’accertamento delle responsabilità.

Sullo sfondo 

Lo stesso Emad al-Trabelsi, prima della nomina da parte del governo di Tripoli, è stato a capo della milizia General Security Agency, coinvolta, secondo Amnesty International, in crimini contro rifugiati e migranti, tra cui sparizioni forzate e torture.

Il Cairo Institute for Human rights fa notare che la tempistica di queste misure ha coinciso con l’aggravarsi della crisi finanziaria in Libia, con carenze nelle entrate petrolifere e l’incapienza del governo di coprire gli stipendi del settore pubblico per ottobre e novembre. L’intensificarsi dell’attenzione del governo sulla morale, spiegano, potrebbe servire da distrazione dalla cattiva gestione economica, facendo leva sulla retorica populista per spostare l’attenzione pubblica sul lassismo morale dai deficit finanziari e dal declino delle riserve di valuta estera.

La Libia, ricca di petrolio e snodo delle rotte migratorie, dal 2011, cioè dal rovesciamento di Muammar Gheddafi, è impantanato nell’instabilità politica. Dal 2014, il Paese si è diviso tra fazioni orientali e occidentali, ciascuna governata da amministrazioni rivali. Il Gnu, riconosciuto a livello internazionale, di cui Trabelsi è ministro, e che ha sede nella città occidentale di Tripoli, e un’amministrazione rivale con sede a Bengasi che si rifiuta di riconoscere il primo ministro del Gnu, Abdul Hamid Dbeibah, nominato nel 2021 attraverso un processo sostenuto dalle Nazioni Unite.

La Libia ha quindi due amministrazioni rivali, una a est e l’altra a ovest, che a loro volta devono fare i conti con 140 tribù e clan.

Gruppi armati di ispirazione islamista che ancora oggi esercitano il controllo di fatto su molte aree del Paese e alcuni osservatori internazionali leggono tra le righe delle dichiarazione del ministro dell’Interno un tentativo per ottenere il favore di queste forze, dimostrando un allineamento ideologico sui temi della moralità pubblica.

Barriere politiche 

La minaccia di misure più restrittive si inserisce in un più ampio schema di violazione dei diritti delle donne libiche.

Secondo il report del Paese redatto da Amnesty le donne subiscono discriminazioni legali e pratiche, anche in relazione al matrimonio, al divorzio, all’eredità, all’occupazione, al diritto di trasmettere la loro nazionalità ai figli e d’accesso alle cariche politiche.

La partecipazione politica formale delle donne rimane limitata, ne consegue una sottorappresentazione femminile nel processo decisionale nazionale, nei processi elettorali e nella governance. Più in dettaglio, la percentuale di seggi occupati da donne nel parlamento nazionale in Libia è cresciuta di pochi centesimi di punto in 10 anni. Dal 2014 al 2023 è passato da 15,96% a 16,47% nel 2023. Le donne hanno anche meno probabilità di candidarsi, di registrarsi come elettrici rispetto agli uomini e meno probabilità di votare alle elezioni.

La partecipazione alla forza lavoro si attesta al 45,7%, in miglioramento rispetto agli anni precedenti, mentre segnali positivi di progresso arrivano dall’istruzione femminile. Secondo Undp, il programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, la percentuale della popolazione di età pari o superiore a 25 anni con almeno un’istruzione secondaria è del 70,5% tra le donne.

La Libia e noi

Solo poche settimane fa, l’Italia è stato il primo Paese occidentale ad allentare le restrizioni di viaggio in Libia. Da pochi giorni, inoltre, sono ripresi i voli diretti tra Italia e Libia operati da Ita Airways: il primo volo europeo dopo 10 anni. Gli spostamenti nel Paese nordafricano, precedentemente scoraggiati in maniera generale, ora non lo sono più se motivati da  necessità, lavoro o affari.

Libia e Italia però sono legate anche sul tema del contrasto dell’immigrazione clandestina.

Con un complesso sistema basato sulle politiche di esternalizzazione delle frontiere, le due nazioni dal 2017 sono partner in un memorandum con cui i Paesi sulle due sponde del Mediterraneo si impegnano ufficialmente in «processi di cooperazione, contrasto all’immigrazione illegale e rafforzamento della sicurezza delle frontiere».

L’accordo, firmato per la prima volta nel 2017, prevede che l’Italia fornisca aiuti economici e supporto tecnico alla Libia per ridurre i flussi migratori (questo include la fornitura di motovedette e attività di formazione per la Guardia Costiera libica) ma è criticato per via delle condizioni inumane che i migranti affrontano nei centri di detenzione.

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