Violenza in rete: le ripercussioni sulla vita pubblica delle donne

“​​Hai rotto i coglioni femminista fallita”: ho ricevuto questo messaggio privato su una delle piattaforme social in cui ho un profilo attivo, all’indomani di un articolo sul film “Oppenheimer”, che aveva attirato l’attenzione di un’utenza prevalentemente maschile e molto aggressiva.

Era solo uno dei messaggi che ho dovuto leggere in quei giorni, alcuni anche più violenti, specificamente rivolti a me come persona, poche le critiche nel merito di ciò che avevo scritto. Un’esperienza che condivido con molte altre donne, quando si espongono con le loro idee, le loro riflessioni, le loro convinzioni. O semplicemente con il loro agire.

Nuove forme di violenza

L’accelerazione dell’innovazione tecnologica ha di fatto creato nuove forme di violenza contro le donne, e i reati sono in aumento sia come tipologia sia come numero di casi. Se si guarda all’Italia, nei primi nove mesi del 2024 i reati sul web contro la persona sono aumentati del 9% rispetto allo stesso periodo del 2023: sextortion circa 1200 casi, revenge porn circa 200, stalking intorno a 140 casi, secondo i dati del ministero dell’interno aggiornati al 3 novembre. E ancora abbiamo pochi dati sulla diffusione dei deepfake, per il 98% a sfondo pornografico e naturalmente con stragrande maggioranza di vittime donne.

Dico naturalmente perchè anche nella cyberviolenza, specchio di una realtà pervasa dalla cultura dello stupro, «Le donne hanno più probabilità degli uomini di essere vittime di forme gravi di violenza informatica e l’impatto sulle loro vite è molto più traumatico», come ha affermato Jurgita Peciuriene, coordinatrice del programma dell’EIGE per la violenza di genere (come dimostrano diverse ricerche, qui e qui per esempio).

A oggi l’Ue non ha ancora un approccio comune o una definizione comune per la violenza informatica, il che significa che ogni Paese la definisce e la punisce in modo diverso. Nell’aprile 2024, il Parlamento ha adottato la prima normativa dell’UE sulla lotta alla violenza contro le donne. La direttiva chiede leggi più severe contro la cyberviolenza, una migliore assistenza alle vittime e misure per definire meglio il consenso sessuale. Le nuove norme delineano linee guida particolari per i reati commessi online, come la divulgazione di informazioni private e l’invio di immagini oscene. I Paesi dell’Ue dovranno adeguare la propria legislazione nazionale ai requisiti entro il giugno 2027.

Se oggi in alcuni casi non è nemmeno considerata reato, la violenza informatica necessita comunque di una formazione adeguata da parte di polizia e giustizia, per non correre il rischio che le vittime che denunciano non siano prese sul serio, o, peggio, rinuncino a denunciare, anche in presenza di normative che riconoscono il reato. Fino a che comunque non vi sarà un impianto giuridico comune, avremo lacune nei dati e una mancanza di statistiche comparabili a livello Ue, il che significa che i decisori non hanno accesso a dei dati utili per un’informazione completa nella valutazione del fenomeno. Il risultato è che le vittime spesso devono arrangiarsi con una protezione inadeguata o talvolta addirittura nulla.

Quando le prime community hanno sollevato dubbi etici

Come per tutti i tipi di violenza, la violenza informatica colpisce enormemente la vita delle vittime e non può essere pensata come un fenomeno separato dalle forme di violenza del mondo reale. Questo dicono oggi gli esperti. D’altro canto le comunità virtuali hanno sollevato fin dagli albori di internet il dubbio etico sulle conseguenze reali della cyberviolenza.

Nel 1993 all’interno della piattaforma LambdaMOO, uno dei primi ambienti virtuali basati su testo, si è verificato un evento che è diventato un caso di studio fondamentale nelle discussioni sulla responsabilità etica e giuridica nei mondi virtuali e digitali. Un utente, noto come “Mr. Bungle”, ha abusato di un exploit tecnico per simulare atti di violenza sessuale nei confronti di altri avatar, in un episodio che è stato definito per la prima volta “cyberstupro”.

L’evento ha sollevato un dibattito intenso, ponendo domande cruciali sulla relazione tra il sé digitale e il sé reale, oltre a sollevare temi su etica, regole comunitarie e governance negli spazi online. Dopo l’incidente, la comunità di LambdaMOO si è interrogata su come affrontare tali comportamenti, portando a uno dei primi esperimenti di democrazia digitale per decidere le sanzioni contro gli utenti problematici. Certo, stiamo parlando di un’epoca in cui gli “standard della community” provenivano davvero da una community e non da un’azienda proprietaria. Eppure sembra che la riflessione, in qualche modo, oggi non sia andata ancora al nocciolo della questione.

La violenza online è violenza

È legittimo sovrapporre la violenza sessuale online e quella offline? Ed è possibile applicare ad alcune forme di questi tipi di violenza l’etichetta di “stupro”, a prescindere dal fatto che avvengano online o offline? E se parliamo di differenza tra tipi di violenza, di che tipo di differenza si tratta? Sono questi gli interrogativi che pone Francesco Striano, ricercatore in filosofia morale presso l’Università degli studi di Torino, e recentemente autore del libro “Violenza virtuale. Vita digitale e dolore reale” (il Saggiatore). Proprio partendo dall’affaire Bungle, ma raccontando anche altri episodi che hanno fatto storia, avvalorando le riflessioni con dati di inchieste internazionali, Striano si avventura a strutturare un ragionamento per stabilire se ciò che accade online possa essere considerato una vera e propria violenza e, di conseguenza, come vada poi attribuita la responsabilità. Una riflessione che porterebbe con sè implicazioni anche sul piano umano, oltre che giuridico.

«In ciascun sistema giuridico bisogna fare i conti con l’esistente e quindi cercare il miglior appiglio possibile per sanzionare determinati comportamenti. Questo serve per dare un nome ai fenomeni e per produrre delle sanzioni. Su un piano concettuale è giusto sanzionare il reato, però se il nostro scopo è anche prevenire, il cambiamento deve essere culturale» spiega Striano ad Alley Oop, motivando il fatto che nell’interrogazione filosofica possono esserci delle risposte concrete. Prosegue: «Proprio negli interstizi, nei punti di frizione tra categorie concettuali abituali ed eventi che sembrano metterle in crisi, sorgono domande a cui la filosofia deve cercare di dare risposte, o quantomeno di fornire una problematizzazione che ci faccia rendere conto che siamo di fronte a questioni per le quali forse non esistono soluzioni facili che possano essere fornite da saperi settoriali».

Come bisogna affrontare la questione della violenza online?

A oggi le nozioni di consenso e privacy sono alla base di qualunque discorso giuridico o di regolamentazione per contrastare e prevenire la violenza online. Ma sono nozioni sufficienti per inquadrare il fenomeno? Secondo Wendy Chun (professoressa di New Media e direttrice del Digital Democracies Institute, citata da Striano), piuttosto che chiedere privacy o un controllo più stringente della rete, sarebbe necessario lottare per ottenere diritti pubblici. Il principale diritto che soprattutto le donne dovrebbero pretendere, in città così come online, è il Right to Loiter, che potremmo tradurre letteralmente come “diritto di bighellonare”, di andare in giro pubblicamente, ma restando anonimi, di esporsi senza essere notate, seguite, additate. «Più che il diritto alla sicurezza, da pretendersi è il diritto a prendersi dei rischi, senza che questo condanni o marchi per sempre».

La data-journalist Donata Columbro, ha recentemente raccontato di come nel 2018 lei e altre professioniste del digitale, abbiano scelto di abbandonare Snapchat, in quel momento sulla cresta dell’onda per innovatività e interesse, non per una scelta strategica, ma per non trovarsi «in una condizione di profondo disagio, subissate da contenuti osceni ogni volta che aprivamo l’app». Non diventa, questo, un altro modo per togliere voce e spazio pubblico alle donne? Oltre alle implicazioni psicologiche della violenza online, di cui peraltro ancora si parla troppo poco, vi sono concrete ripercussioni sulle scelte individuali e professionali di ciascuna.

«Non è sufficiente parlare di consenso e di privacy per tutelare ma soprattutto per prevenire questi fenomeni di violenza digitale» prosegue Striano. «È ovvio che a livello giuridico servono degli appigli a fattispecie già esistenti, ma caratterizzare i fenomeni di violenza digitale come violazioni della privacy non tiene conto delle dimensioni di dolore che viene arrecato alla vittima e di intaccamento della propria soggettività, della propria volontà di autoaffermazione».

Vi è uno spazio di pensiero che non può per sua natura essere occupato dall’intervento giuridico: educazione, informazione, cultura dell’altro sono ancora una volta concetti che hanno a che fare con la dimensione individuale e civile di responsabilità. È di questo che si parla quando si dice che per combattere la violenza bisogna intervenire a livello culturale. Solo così termini come “privacy” e “consenso” possono essere riempiti di senso. Ma concretamente come si può agire?

Striano risponde citando due criminologhe australiane, Anastasia Powell e Nicola Henry: nel loro lavoro distinguono tre livelli in cui declinare i possibili interventi, microlivello, mesolivello e macrolivello. Striano li spiega così: «Il primo livello è quello che concerne gli individui ed è quello dove si può elaborare un controdiscorso, perciò servono persone attive e formate in grado di contrastare la visione comune e patriarcale che spesso sta alla base dei fenomeni di violenza digitale. Ciascuno di noi può intervenire a questo livello. Poi certo la responsabilità non è solo sugli individui. Il mesolivello è quello che concerne la responsabilità delle piattaforme tecnologiche con le loro regolamentazioni proprietarie. Dopodichè il macrolivello riguarda la legislazione e la cornice istituzionale, ma anche l’investimento in risorse pedagogiche, per l’educazione sia a una cittadinanza attiva a responsabile che all’affettività, alla sessualità, alla convivenza delle differenze. Non è facile coordinare queste azioni, ma probabilmente è l’unica strada».

Utopia? Chiedo a Striano, con un pizzico di disincanto, in questi tempi in cui sembra piuttosto di vivere dentro una distopia. Ma la sua risposta punta una luce su qualcosa che troppo spesso dimentichiamo: «L’utopia forse non è realizzabile, ma ci indica l’unica strada giusta da percorrere».

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