Violenza ostetrica, è ancora troppo nascosta e non compresa

Sara, Giorgia, Maria, Carmen, Paola…. la lista è molto lunga… amiche, colleghe, pazienti; donne. Donne che, nelle loro confidenze, in un momento di intimità davanti a un caffè, o al sicuro nella stanza della terapia, hanno condiviso esperienze intime e dolorose vissute e subite, sul loro corpo, nell’ambito di situazioni in cui, invece, avrebbero dovuto essere garantiti rispetto, supporto e cure adeguate: durante il parto, durante una visita o un intervento ginecologico.

Un tema ancora poco trattato

Donne vittime di quella specifica forma di violenza di cui ancora non si parla abbastanza, soprattutto in Italia, ma che è assai diffusa e riguarda molte donne in tutto il mondo, la violenza ostetrica. Dal punto di vista socioculturale, il dibattito sul fenomeno è nato e si è evoluto in America Latina a partire dagli anni Settanta, ma è solo nel 2007 che si giunge a sua prima definizione giuridica quando, in Venezuela, viene promulgata la “Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia” (Legge Organica sul diritto delle donne a una vita libera dalla violenza) in cui, la violenza ostetrica, veniva definita come “l’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali, avendo come conseguenza la perdita di autonomia e della capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità della vita della donna”.

Una forma di violenza di genere

Sono passati quasi vent’anni da quella prima definizione di legge al mondo, nel frattempo, grazie ai movimenti delle donne e alla fondazione e diffusione di osservatori sulla violenza ostetrica, la violenza ostetrica e ginecologica, è diventata oggetto d’interesse ed attenzione a livello internazionale ed è stata inserita nella lista delle violenze di genere: una violenza sulle donne in quanto donne.

Nel 2014 l’OMS in un documento intitolato “La Prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere” ha dichiarato: Ogni donna ha il diritto al migliore standard di salute possibile, che include il diritto all’assistenza dignitosa e rispettosa durante la gravidanza e il parto, così come il diritto ad essere libera dalla violenza e dalla discriminazione.

Le testimonianze di chi ha sofferto

Abuso, negligenza o mancanza di rispetto durante il parto possono condurre alla violazione dei fondamentali diritti umani della donna, come descritto nelle norme e nei principi dei diritti umani adottati internazionalmente.
Molti sono i casi in cui questo “diritto all’assistenza dignitosa e rispettosa” viene violato, le storie delle donne lo dimostrano, basta mettersi in ascolto, ed ecco che Maria racconta come sia stato «terribile il travaglio, non per il dolore, ma per essere stata lasciata completamente sola per ore…. Ogni tanto qualcuno si affacciava, mi controllava e poi andava via commentando frasi del tipo, “ce ne mette di tempo” o “dai su’, non esageri, non è mica la prima che fa un figlio… ero completamente sola».

O ancora Sara che nel corso di una seduta di psicoterapia proprio focalizzata sull’elaborazione della sua esperienza traumatica del parto racconta: «Ancora oggi, ciò che mi dispiace è che quando penso al mio parto non ne conservo un buon ricordo. Il momento che sarebbe dovuto essere il più bello della mia vita, perché nasceva mia figlia, è invece stato macchiato da un atteggiamento oserei dire disumano. Non mi hanno fatto l’epidurale nonostante l’avessi chiesta, ho fatto un travaglio di 37 ore in cui mi dicevano che non dovevo urlare altrimenti spaventavo le altre. Alla fine ho dovuto fare un cesareo d’urgenza perché la mia bambina era in sofferenza, e anche avuto un’emorragia. Nelle ore dopo ero stremata, dolorante, ma viva». Ma oltre a questo, nel racconto di Sara emerge con forza che la ferita deriva dal non sentirmi compresa rispetto alla terribile paura provata di poter perdere la vita o di poter perdere sua figlia. E dopo, quando finalmente la bimba è nata, Sara si è ritrovata esausta, dolorante e sola. «Mi hanno lasciata mia figlia lì in stanza, io non avevo le forze per prenderla – racconta – e se chiamavo le infermiere dicevano che dovevo imparare a cavarmela da sola, che non sarebbero mica venute loro a casa con me. Spazientite, mi dicevano che dovevo iniziare a fare la mamma. Ma io non avevo forze, non in quel momento. L’immagine di me che piango da sola seduta sul letto con in braccio mia figlia. Questo è il ricordo che ho del mio parto».

L’indagine

Secondo la prima ricerca nazionale “Le donne e il parto” realizzata da Doxa per conto dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia, il 21% delle madri italiane con figli di età compresa tra 0-14 anni, dichiara di aver subito una qualche forma (fisica o psicologica) di violenza ostetrica durante il primo parto. L’indagine è stata condotta su un campione rappresentativo di circa 5 milioni di italiane, di età compresa tra i 18 e i 54 anni, sono stati analizzati diversi aspetti vissuti dalle madri durante le fasi del travaglio e del parto. L’indagine ha rilevato che per 4 donne su 10 (41%) l’assistenza al parto è stata per certi aspetti lesiva della propria dignità e integrità psicofisica. In particolare, l’esperienza maggiormente vissuta come negativa è stata la pratica dell’episiotomia, subita da oltre la metà (54%) delle intervistate. Valutando la qualità complessiva delle cure ricevute, il 27% delle intervistate dichiara di essersi sentita seguita solo in parte dal personale sanitario. Le inappropriatezze denunciate sono molteplici. Il 27% delle madri lamenta carenza di sostegno e di informazioni sull’avvio dell’allattamento, il 19% la mancanza di privacy, il 12% delle donne afferma che è stata negata la possibilità di avere vicino una persona di fiducia durante il travaglio; al 13% non è stata concessa un’adeguata analgesia dopo richiesta.

Le conseguenze e la presa di coscienza delle donne

Le conseguenze per le donne che subiscono violenza ostetrica possono essere gravi e durature: trauma psicologico (Ptsd, depressione e ansia post-parto), impatto sul legame madre-bambino, disincentivo all’assistenza sanitaria creando un ciclo di paura e isolamento.

Nel 2019 il Consiglio di Europa ha approvato la Risoluzione n. 2306/2019, in cui si legge che “la violenza ostetrica e ginecologica è una forma di violenza rimasta nascosta per molto tempo ed è tutt’ora spesso ignorata. Nell’ambito privato della consultazione medica o durante il parto le donne sono vittime di pratiche violente o che possono essere percepite come tali – inclusi gli atti inappropriati e non acconsentiti, come le episiotomie e le palpazioni vaginali realizzate senza consenso, pressione sul fondo dell’utero o interventi dolorosi eseguiti senza anestesia. Sono stati riferiti anche comportamenti sessisti durante le visite mediche.”. Vero: questa forma di violenza è rimasta nascosta per molto tempo ed è tutt’ora spesso ignorata perché è stato necessario un cambiamento culturale e una presa di coscienza, in primis nelle donne, che quanto da loro accettato come normale ed inevitabile in merito a pratiche mediche e atteggiamenti degli operatori sanitari, tanto normale non era, ed anzi era un loro diritto poterlo evitare.

La presa di coscienza femminile ha avuto un ruolo importante nell’analizzare le dinamiche strutturali della violenza ostetrica quale violenza istituzionale perpetrata sulla donna e sul suo corpo; essa, quindi, non è una problematica individuale, ma il riflesso delle strutture sociali, culturali e sanitarie intrise di una logica di potere patriarcale. Nel dibattito internazionale, ormai, è riconosciuta appieno come una violazione dei diritti umani. Tuttavia, la letteratura specialistica mette in evidenza come, di fianco a una lettura del fenomeno in un’ottica di genere, tra le cause della violenza ostetrica, debbano essere considerati anche altri fattori quali la mancanza di formazione adeguata per gli operatori sanitari in materia di comunicazione empatica e rispettosa delle pazienti; una cultura della medicalizzazione del parto che ne ignora l’aspetto naturale dell’esperienza riducendolo a un processo puramente clinico; e per ultimo, ma non per importanza, il fatto che sempre più i sistemi sanitari sono sovraccarichi e mal organizzati. Quest’ultimo fattore, esponendo gli operatori a situazioni di stress e rischio di bournout incide in maniera sugnificativa sulla lora capacità di fornire cure adeguate.

I passi che servono

Per affrontare la violenza ostetrica è necessario un cambiamento sistemico. Secondo la Risoluzione n. 2306/2019 del Consiglio d’Euopa è necessario implementate le procedure atte a prevenire queste forme di violenza, attraverso la formazione del personale sanitario e l’applicazione di sanzioni a chi viola tali procedure. Sicuramente grande attenzione deve essere posta al consenso informato, che deve rappresentare la prima forma di tutela e protezione. La stessa ONU afferma che il contrasto della violenza ostetrica richiede urgentemente misure di compensazione alle vittime, formazione specifica del personale sanitario sul tema dei diritti umani delle donne, e presa di coscienza collettiva della pervasività della violenza di genere

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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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  • Stefano |

    Il 99,9% delle ostetriche è donna.
    Oltre il 65% dei ginecologi è donna.
    Il 99,99% delle infermiere di reparto ginecologia è donna

    Ma, ehi, è “violenza deggennere”

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