Cop29, dall’Africa alla Costa Rica le donne guidano la lotta per il clima

Da sinistra: Mercy Moinan, Mana Omar, Hazel Munos Alpizar, Jessica Bwali, Roseline Isata Mansaray

«Inondazioni, incendi e siccità hanno distrutto diverse volte il mio villaggio e quelli vicini. Molte persone che conosco hanno perso la casa, il lavoro e, nei casi, peggiori la vita. Molte ragazze che hanno visto morire la loro famiglia, per sopravvivere, sono finite a fare le prostitute in città. Ho iniziato a scioperare per essere anche la loro voce e quella della mia comunità». A parlare è la Roseline Isata Mansaray, fondatrice del movimento per il clima Fridays for Future in Sierra Leone, in Africa.

Da anni, partendo dal suo paesino vicino alla capitale, Freetown, sfida i pregiudizi di genere e i limiti alla libertà di parola per «chiedere azioni adeguate a contrastare la crisi ecologica». Come lei, tante attiviste provenienti da tutto il mondo guardano sia con rabbia sia con speranza nel cambiamento a Cop29. La conferenza dell’Onu sul clima iniziato l’11 novembre a Baku, in Azerbaigian, potrebbe essere una delle ultime chance di indurre i Paesi del mondo a ideare strategie di adattamento e resilienza collettive e salvare le comunità più vulnerabili.

Ampliare le disuguaglianze

A sperimentare le conseguenze più drammatiche del surriscaldamento globale sono spesso le economie emergenti, non solo sia dal punto di vista dei fenomeni estremi, come roghi, siccità e alluvioni. «La crisi climatica sta esacerbando tutti i problemi sociali e di genere già presenti nel mio Paese», racconta Mana Omar, meteorologa e attivista per la giustizia climatica e di genere che rappresenta le comunità di pastori del Kenya. «Per esempio, in tempi di siccità come quelli che stiamo vivendo le donne devono percorrere distanze maggiori per andare a prendere l’acqua e raccogliere legna da ardere, esponendosi così al pericolo di aggressioni sessuali e fisiche».

Sono poi molte le famiglie che, a causa della perdita di bestiame, «non riescono a permettersi di soddisfare nemmeno i bisogni primari, come cibo, vestiti, riparo e servizi igienici puliti e sicuri», aggiunge. La povertà ha poi limitato «l’accesso all’istruzione delle ragazze. Questo mentre è evidente come iniziative di emopowerment femminile e di gestione sostenibile delle risorse possono migliorare significativamente la resilienza della nostra comunità», dice anche la kenyota Mercy Moinan, che, dopo la siccità che ha messo in crisi lo stile di vita tradizionale del suo popolo nel 2022, è impegnata a sensibilizzare le persone sul surriscaldamento globale e sull’emancipazione femminile.

Giovani senza futuro

Anche in Zambia «le donne devono rinunciare a un sacco di cose» per la crisi climatica. La carenza idrica le costringe «ad andare a prendere l’acqua più lontano e a spostarsi per cercare terreni più fertili o frutti selvatici da mangiare, soprattutto nelle zone rurali», per prendersi cura degli anziani della comunità oppure delle persone con disabilità più vulnerabili, spiega Jessica Bwali, conduttrice radiofonica diventata attivista nel 2019 per il desiderio di spiegare ai suoi concittadini cosa stesse succedendo alla loro terra.

Oltre che per bere, cucinare e lavarsi, in Zambia l’acqua è fondamentale anche per la generazione dell’energia idroelettrica. Per questo motivo il Paese negli ultimi anni ha dovuto affrontare numerosi blackout e interruzioni di corrente «durati anche per intere settimane». Le persone più povere, «che non hanno la possibilità accedere fonti alternative, devono sopportare i disagi della situazione». Tuttavia, anche i giovani che vivono in città le conseguenze sono difficili da affrontare:  «tanti hanno dovuto chiudere i loro negozi da barbiere, ristoranti o altre piccole attività» per i costi delle bollette, spiega Bwali. Molte piccole imprese sono state poi costrette a tagliare sul loro personale e «hanno preferito conservare i posti di lavoro per gli uomini più forti, licenziando donne e giovani».

Lotta per la biodiversità

Un Paese in difficoltà per garantire la sopravvivenza dei suoi cittadini fatica inoltre a tutelare i suoi ecosistemi, alimentando un circolo vizioso distruttivo che contribuisce a fare aumentare le emissioni di gas serra e a fare schizzare i prezzi del cibo. «Immaginate un terreno sabbioso e secco, con pochi cespugli dove le persone devono andare a cercare frutta secca, con il rischio oltretutto di incontrare animali selvaggi affamati e di doverli uccidere, per difendersi dai loro attacchi», spiega ancora Jessica Bwali. «Per esempio, in Zambia poi ci sono molti elefanti e l’uomo è in competizione anche con loro per l’acqua».

In Costa Rica invece «è il contesto politico che spesso non favorisce iniziative di tutela della biodiversità, soprattutto nelle zone più periferiche», spiega Hazel Munos Alpizar. Impegnata da quando aveva 10 anni in iniziative per sensibilizzare la sua comunità sul fragile tesoro rappresentato dalle zone umide del nord dello Stato, al confine con il Nicaragua, non ama definirsi un attivista. «I temi della conservazione e della crisi ecologica si mischiano anche al problema delle delle migrazioni e della gentrificazione – spiega – Tanti abitanti della Costa Rica  con l’arrivo di stranieri con una maggiore capacità di spesa devono spostarsi in zone più vulnerabili ed esposte al cambiamento climatico«.

Libertà di esprimersi

Fortunatamente però il grido di allarme di Alpizar e le sue attività per la comunità, come quelle di molti suoi concittadini, stanno dando i loro frutti. «Negli ultimi anni sono stata testimone di come le denunce pubbliche sui crimini ambientali siano state ascoltate dal governo e di come il dibattito sul cambiamento climatico si sia ampliato, anche nel settore privato e delle imprese, sebbene la politica in tutti i Paesi sia piuttosto burocratica e lenta», afferma. Infatti «uno dei privilegi di vivere in Costa Rica è la libertà di espressione uguale per uomini e donne che in molti altri Paesi dell’America Latina non è scontat».

Il contesto è diverso in Kenya. «Non mi sento molto libera nel mio Paese, ma nemmeno limitata. Diciamo che l’attivismo radicale non è permesso. Per esempio, nominare le alte cariche del governo durante i cortei suscita spesso indignazione. Tuttavia, personalmente non ho avuto problemi a organizzare proteste su questioni legate al cambiamento climatico», spiega Mana Omar. Vero è però che «in uno Stato in gran parte patriarcale, per le donne esporsi in pubblico è considerato rischioso”, aggiunge la meteorologa. “Rispetto alle nostre controparti maschili, dobbiamo affrontare delle sfide in più,  come la violenza di genere, lo stigma sociale e il rischio di essere emarginate nelle discussioni – aggiunge Mercy Moinan – Mentre gli attivisti uomini ricevono più credito e sostegno, le donne spesso devono lavorare di più per far sentire la propria voce”.

Verso un miglioramento

«A Lusaka, capitale dello Zambia, alcuni dei miei amici che sono attivisti sociali e per il clima sono stati arrestati, ma, a parte questi episodi, tutti sono abbastanza liberi di parlare», dice invece Jessica Bwali. La disparità di diritti di parola cresce però nelle comunità rurali: lì «si pensa che le donne possano solo ascoltare, senza parlare, ma le cose stanno lentamente cambiando, anche perché sono loro a essere più colpite dal cambiamento climatico e quindi devono potersi mettere al tavolo e discutere delle soluzioni», afferma l’attivista.

Spesso sono i grandi gruppi industriali dipendenti dai combustibili fossili, oltre ai rappresentanti politici, «a limitare le nostre libertà di esprimere preoccupazione per il clima». Per combattere scetticismo dei nostri concittadini sull’azione internazionale, è essenziale che le organizzazioni multilaterali, come l’Onu, coinvolgano nella lotta al climate change «le comunità locali e familiari, delle quali spesso le donne sono il centro, con il vantaggio sfruttare le loro conoscenze  e il loro rapporto con la natura», aggiunge Roseline Mansaray. Bisognerebbe offrire alle popolazioni sostegni per unire alle pratiche tradizionali «nuove tecniche e infrastrutture, per implementare strategie di adattamento e di gestione sostenibile del territorio», spiega la fondatrice di Fridays for Future Sierra Leone.

Speranza e rabbia

Cop29, la conferenza organizzata dall’Onu sul clima è un’occasione da non sprecare per lavorare su questi temi e per ampliare il supporto finanziario per gli Stati più vulnerabili. «Speriamo che finalmente si riescano a concludere i negoziati per rendere operativo il fondo Loss and Damage (perdite e danni) e sulle cifre da destinarvi, per risarcire le popolazioni più colpite e meno responsabili delle emissioni di CO2», spiegano le kenyote Mana Omar e Mercy Moinan. «La giustizia climatica è un prerequisito per l’adattamento e la costruzione della resilienza», aggiunge Omar. Le attiviste auspicano un contributo del Nord globale, sia nel limitare la produzione di gas serra, sia nel sostenere azioni efficaci nei Paesi del Sud globale

«I finanziamenti disponibili sono molto macchinosi, bisogna semplificarli in in termini burocratici, in modo che non obblighino a lavorare su progetti a breve, ma permettano di progettare un agenda ben definita», afferma  spiega Hazel Munos Alpizar. «C’è ancora tanto da fare», dice anche Jessica Bwali, determinata a proseguire nella lotta «per combattere l’ansia per la sopravvivenza»scatenata dalla crisi climatica e «cambiare il sentito delle persone» rispetto all’emergenza e sulla possibilità di risolverla, «salvando persone innocenti, come i miei concittadini e la mia famiglia». Nonostante tutto quello che ci è successo, «dobbiamo continuare a credere che le cose miglioreranno», dice anche Roseline Isata Mansaray.

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