Risposte e soluzioni sono da sempre la cifra distintiva di chi fa carriera. Nella nostra società, la chiave del successo è risolvere i problemi, non generare nuovi interrogativi.
Eppure, il World Economic Forum ha classificato il pensiero analitico e quello creativo come le due competenze attualmente più importanti sul posto di lavoro. Abilità, queste, che richiedono la capacità di porre domande. Attraverso le risposte, infatti, non si analizzano le situazioni e non si generano nuove idee. Si sta, piuttosto, nella propria zona di comfort. Le risposte riguardano la soluzione. Le domande, invece, il problema. Sono loro che permettono di mettere in dubbio la visione dominante. Suggeriscono che la questione possa anche essere errata e permettono, così, di uscire dal conosciuto, aprendosi a innovazione e crescita. Supportano il pensiero strategico e la capacità di esplorare scenari nuovi.
Perché si fatica a fare domande
In situazioni complesse, porre interrogativi permette altresì di superare l’ambiguità e di dare senso. Questi, aiutano a far chiarezza nell’incertezza e ad ottenere una comprensione dei fenomeni più puntuale. Tuttavia, è proprio nell’incertezza che maggiormente si fatica ad affidarsi alle domande. Specialmente in azienda.
Dal momento che le domande accompagnano fuori dalla zona di comfort, diventano una sorta di minaccia. In periodi già incerti, sommano ulteriore precarietà allo scenario. In un momento in cui c’è necessità di punti fermi, mettono in discussione le certezze. Non porre domande diventa in qualche modo una strategia di mitigazione dell’ansia. Emozione che si genera quando il futuro è sconosciuto e lo si teme.
Certo, gli interrogativi consentono anche di ottenere informazioni che possono essere preziose per la propria tranquillità, ma il percepito è che avvenga piuttosto il contrario. Le domande sono vissute come potenziali fonte di informazioni ulteriormente destabilizzanti. In un certo qual modo, si preferisce non sapere di non sapere. Che è pur sempre un sapere. E, dunque, una forma sottile di certezza.
La situazione nel nostro Paese
Nel suo celebre modello, Hofstede considera l’evitamento dell’incertezza come una delle cinque dimensioni intorno alla quale possono essere classificate le culture. A tal proposito, vi sono società che, più di altre, sono stressate dall’ambiguità e dalla mancanza di struttura. Si sentono a loro agio con codici comportamentali rigidi, regole e processi. Ossia, con le risposte. Tra queste, Giappone, Portogallo e Grecia.
Altre nazioni, invece – come Danimarca, Svezia e Singapore – si caratterizzano per una maggiore propensione al pensiero divergente e all’innovazione. E, dunque, alle domande.
In questo scenario, l’Italia si posiziona verso il primo polo, con un punteggio di 75/100 nella dimensione “evitamento dell’incertezza”. Nel nostro Paese si difende la cultura di ciò che è certo: sono le risposte ad essere, pertanto, ricercate.
Non è forse un caso, allora, il nostro punteggio di 46,6 punti nell’ultimo Global Innovation Index, che valuta la tendenza all’innovazione di oltre 130 nazioni. Un risultato ben al di sotto di paesi come Svezia e Singapore, individuati da Hofstede come abituati all’incertezza. I quali si attestano rispettivamente su 64,2 e 61,5 punti.
Al di là di innovazione e complessità
Le domande non sono solamente funzionali all’innovazione e alla gestione della complessità. In azienda, permettono anche di consolidare le relazioni ed emergono addirittura come elemento essenziale per lavorare con l’Intelligenza Artificiale.
Nel primo caso, consentono di approfondire la conoscenza reciproca e, dunque, di tessere legami sociali più stretti. Favorendo, peraltro, la collaborazione. Celebre è l’esperimento delle 36 domande dello psicologo Arthur Aron, che ha dimostrato la capacità che gli interrogativi hanno di promuovere vicinanza e addirittura di far innamorare due persone.
Nel caso dell’Intelligenza Artificiale, invece, porre buone domande si rivela una competenza essenziale per collaborare efficacemente con sistemi come ChatGPT. Si pensi ai prompt: le informazioni – e il valore – che riusciamo ad estrarre dell’IA dipendono enormemente dalla capacità di porre i giusti interrogativi.
Tutte evidenze, queste, che sembrano suggerire la necessità di fare – e farsi – più domande. In fondo, come scrive Hal Gregersen nel suo omonimo libro: “Nelle domande c’è la risposta”.
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