Non è un film che va guardato con lo sguardo di un adulto, questo va detto subito. Ma non è nemmeno un film per bambini, e questo lo chiarisce Netflix classificandolo come adatto dai 13 anni in su. “Damsel” – sulla piattaforma streaming dall’8 marzo 2024 – ha qualcosa che fa storcere il naso e qualcosa che attrae, e forse la sua forza sta proprio nel suo collocarsi in questa terra di mezzo, un limbo di generi che non convince mai fino in fondo ma allo stesso tempo lascia aperte diverse possibilità.
È la storia di una “principessa che si salva da sola”, e le virgolette servono a mettere in luce come questo sia ormai diventato un canone, non più una novità né una rivoluzione, almeno da quando Elsa di “Frozen” ha accompagnato le bambine di tutto il mondo (e le loro mamme, persino i papà) a comprendere come il potere per una donna non sia qualcosa da temere, ma da accettare, conoscere e comprendere come parte di sè, e che in fondo una principessa non ha bisogno necessariamente di un principe per diventare regina. Dopo Elsa sono fioccate le storie di principesse che bastano a se stesse, fino agli eccessi di “The Princess”, action movie del 2022, questo sì per un pubblico adulto, almeno per la violenza di certe scene. Lì vedevamo infatti una ispirata Joey King salvarsi da una reclusione forzata (dovuta al rifiuto di un matrimonio) sgominando un esercito di guardie a mani nude e armate, e sì, una principessa fantasy che fa arti marziali pone il film ai limiti dell’assurdo, ma l’esperimento ha convinto proprio per l’esagerazione e perché c’era bisogno, in fondo, di vedere una ragazza in un ruolo così disruptive.
Un’altra principessa
“Damsel” è un film po’ più timido rispetto alle scene di violenza, edulcora il sangue, ammorbidisce le ombre horror, ma indugia su qualcosa di decisamente più interessante. La storia vede protagonista Millie Bobby Brown nel ruolo di Elodie, principessa di un regno povero che viene promessa in sposa al principe di un regno molto più ricco. Un sacrificio che lei accetta per offrire una possibilità di sopravvivenza al proprio popolo, e già qui si potrebbe iniziare a discettare di come nella storia le donne siano state (e siano ancora in alcune realtà) moneta di scambio per garantire al potere (maschile) di sopravvivere a se stesso. Ma la realtà per Elodie va ancora oltre: il suo sacrificio non sarà infatti solo metaforico, ma una volta conclusa la formalità del matrimonio, verrà letteralmente immolata per ripagare un vecchio debito. Spinta in una fossa, senza via d’uscita, avrà a che fare nientemeno che con un drago.
(Da qui: allerta spoiler.)
Salvo poi scoprire che il drago è femmina, è l’ultima della sua stirpe, e il debito che quel regno deve ripagare ha a che fare con l’uccisione della prole della creatura, infuriata per questo da secoli. Apriamo qui il primo inciso: il pubblico adulto sa che nelle fiabe si ripetono schemi narrativi in cui i personaggi rivestono dei ruoli che sono funzionali a quegli schemi, e ciclicamente sono sempre gli stessi. Il nostro immaginario collettivo è colonizzato da una gamma di elementi che sono stati funzionali a consolidare modelli culturali e linee guida da rispettare per mantenere i fragili equilibri su cui il patriarcato si sorregge. Lo racconta benissimo Lou Loubie nel fumetto densissimo “E alla fine muoiono” edito da Bao in Italia.
Se i modelli culturali cambiano, è naturale che anche i racconti, che servono a consolidarli e arginarli, subiscono un mutamento. E se agendo sulle fiabe della tradizione c’è sempre chi urla al tradimento (come se le fiabe della tradizione non fossero nate in un contesto di trasmissione orale e quindi passibili di mutamento), allora bisogna inventarsi nuove fiabe, per offrire dei modelli culturali nuovi. Questo fanno Elsa, Merida e lo stuolo di principesse che proprio lì nell’universo Disney dove hanno più legittimità si fanno spazio accanto agli eroi. E questo fa un personaggio come quello di Elodie, contribuendo a creare il canone dell’eroina, ben diverso da quello dell’eroe, più specifico del femminile.
Nuove fiabe per nuovi modelli culturali
Come spiega Marina Pierri nel suo libro “Il viaggio dell’eroina“, l’esperienza eroica femminile non è un percorso in linea retta di costruzione, ma è più una spirale di distruzione. “Se l’uomo ascende, la donna discende per ascendere: il fulcro dell’Avventura per chi si identifica come donna è l’incontro con la Dea sommersa o Dea oscura, che in fin dei conti è la parte negata di se stessa – dagli altri, e di riflesso da sè”.
Ecco allora che la dragonessa diventa la nemesi di Elodie, nel rappresentare la furia, la rabbia, e tutti quei sentimenti negativi che a lei sono interdetti, in quanto donna, come anche la volontà di potere. Certo la furia della dragonessa è dovuta a una maternità negata, ed è fin troppo facile l’interpretazione per cui Elodie empatizzerebbe con lei in virtù di quell’istinto alla generatività che si attribuisce al femminile. Il simbolismo però è un po’ più complesso, tant’è che alla fine non c’è nessun principe e nessun matrimonio, e l’unico personaggio che riveste in sé una funzione materna e di cura in questa storia è, a sorpresa, la matrigna (Angela Bassett).
Il viaggio di Elodie la porta in tutt’altra direzione: incontra le ombre di tutte le fanciulle che sono state immolate a quella furia, conosce il loro desiderio di vivere, la lotta affrontata dalle sue simili prima di lei. È per loro e con loro che sceglie di combattere e di salvarsi, assecondando il proprio desiderio: vivere.
Solo svestendo i panni (e le ingombranti sottovesti) della principessa, potrà ingaggiare una lotta tesa alla sopravvivenza, e in questa discesa nella violenza e nel dolore scontrarsi con la verità e stringere un’inaspettata alleanza con il nemico che, in fondo, nemico non è. Anzi, è proprio attraverso questa alleanza con il sè-ombra che la ragazza riuscirà a riconoscere il vero nemico, ovvero il potere, che in questa reggia è agito da una donna, la regina interpretata da Robin Wright, a dimostrazione che non basta essere femmine per essere anche femministe.
Non sarà forse un capolavoro dal punto di vista cinematografico (anche la sceneggiatura risulta piuttosto ingenua in molti punti), ma “Damsel” è sicuramente una di quelle storie che servono a movimentare i margini delle narrazioni che costruiscono il nostro immaginario. Una fiaba contemporanea, giusta per i nostri tempi. Un po’ troppo sanguinolenta per farla vedere ai bambini, e troppo poco horror per convincere gli adulti. Ma la sua forza si gioca in un altro campionato.
Una curiosità: esiste un libro, autrice Evelyn Skye, pubblicato in Italia da Rizzoli, ma è un raro caso di scrittura successiva al film. Dan Mazeau, autore della sceneggiatura originale, ne ha consegnato una bozza all’autrice, lasciandole carta bianca per scrivere la sua versione della storia. Età di lettura: 10 anni.
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