Hai il coraggio di fermarti se non stai bene mentalmente?

Ricordo la prima volta che mi sono assentata dal lavoro perché non stavo bene psicologicamente. Pensai fosse un atto di coraggio. E di cura. Verso me stessa. Non riuscivo a concentrarmi e avevo la mente annebbiata, costantemente in bilico tra una crisi di pianto e la sensazione di costrizione allo stomaco. Capii che così non sarei riuscita a concludere nulla e decisi che no, non mi sarei forzata per portare a casa un risultato scadente con un impegno che in quel momento mi sembrava molto oltre le mie possibilità. E così decisi. Mi esposi e mi sentii estremamente vulnerabile. Ricevetti comprensione e supporto e non fu scontato. Imparai in quel momento che è possibile fermarsi anche quando è la mente – e non solo il corpo – a non seguirti.

Da allora, se non sto bene psicologicamente, adotto più o meno la stessa valutazione che faccio quando mi viene l’influenza o la febbre. Mi chiedo: me la sento? Se la risposta è sì, proseguo. Come mi è capitato di lavorare tra colpi di tosse e linee di febbre, lavoro tra pensieri intrusivi o senso di tristezza o vuoto profondo. Vale il mio sentire. Con la promessa – che mi faccio costantemente – di ascoltarmi. E, soprattutto, di assecondarmi nel momento in cui mi rendo conto che no, non sto (sufficientemente) bene per proseguire.

Benessere non è assenza di malessere. Ci si può sentire bene anche con l’influenza o un alto carico di stress. Come si può stare male anche in assenza di sintomi conclamati.
È essenziale lavorare sulla propria consapevolezza, sulla capacità di conoscersi e riconoscersi. Di ascoltarsi e supportarsi. Non è semplice. Anche perché ci si scontra con un sistema che ancora fatica ad accogliere il malessere psicologico come giustificazione sufficiente per assentarsi dal lavoro o venire meno ai propri impegni. Che siano una cena tra amici, una vacanza o semplicemente delle commissioni.

Secondo una recente ricerca britannica, nell’ultimo anno una persona su cinque tra i 16 e i 25 anni ha saltato la scuola o il lavoro a causa di malessere psicologico.
Più di un quarto degli intervistati (29%) ha affermato di temere che il proprio datore di lavoro non li sosterrebbe in caso di problemi relativi alla propria salute mentale.
La situazione nel nostro Paese è ancora meno confortante: i dati 2023 dell’Osservatorio BVA Doxa-Mindwork sul benessere psicologico nelle aziende italiane, infatti, ci dicono che 3 persone su 4 non si sentono libere di esprimere la propria vulnerabilità al lavoro.

La conseguenza è scontata e può prendere solamente due direzioni: il silenzio oppure le scuse. Nel primo caso si rigetta dentro di sé il proprio malessere, finendo per cronicizzarlo. Come se con 38 di febbre si uscisse poco coperti di inverno. Nel secondo caso, invece, si finiscono per trovare motivazioni altre, che sostengano il proprio assentarsi. Spesso, con voli pindarici che rasentano giochi di prestigio.

Per quanto mi riguarda, è ormai da tempo che ho scelto di dire la verità. Che sia ai miei colleghi e alle mie colleghe, alle persone della mia famiglia o alla mia rete di amicizie. All’inizio non mi sentivo sicura nel farlo, oggi invece si. È stato un processo, che ha riguardato in primis me stessa e il mio riuscire a fare un passo oltre la mia paura.
Quando manca, la sicurezza psicologica si crea anche così, con atti di coraggio. È un lancio senza il paracadute. E non è affatto scontato. Possiamo ovviare ricordando a noi stessi e a noi stesse che il paracadute siamo noi. Tuttavia, non è sufficiente. Perlomeno, non sempre. È essenziale che il contesto – che sia l’azienda, la famiglia o qualsivoglia altro agglomerato sociale – si faccia terreno soffice su cui cadere.

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