Le donne punti di luce nella tragedia della Shoah

Nel buio infinito della Shoah, nelle pieghe tragiche di quegli anni, le donne brillano come luci di vita. Lo racconta, con passione e dettagli, la rassegna Punti di luce, essere una donna nella Shoah, in corso fino al 14 febbraio nelle sale dell’ex Filanda Meroni di Soncino (Cremona), su iniziativa del Museo della stampa-Centro studi stampatori ebrei di Soncino, guidato da Giuseppe Cavalli. Curata da Susy Barki, vicepresidente dell’Associazione Figli della Shoah, e in collaborazione con l’Istituto dello Yad Vashem di Gerusalemme, la rassegna è una polifonia di donne che, pur vivendo nella patriarcale e conservatrice società ebraica, hanno guidato vite, famiglie e destini. Le loro esistenze e le loro lotte sono tratteggiate in nove sezioni tematiche, tra cui amore, maternità, resistenza, amicizia, fede, cibo e arte.

Da Soncino (la mostra è itinerante) riemergono nomi e volti carichi di luce, affranti dal dolore ma sostenuti dalla speranza. È la poetessa e attivista israeliana Dalia Rabikovitch (1936-2005) in una sua poesia a definirle le donne come «Punti di luce in questa materia oscura…». Nelle fasi iniziali della guerra, molti uomini ebrei furono sfruttati come forza lavoro o scapparono, verso Est, alcuni tentarono la fuga, migliaia furono giustiziati. Le donne si trovarono così, loro malgrado, a gestire le famiglie, a garantire il necessario per vivere. E anche nella tragedia dei campi cercarono la vicinanza con altre donne, prima di finire nell’oblio e di lasciarsi morire, diventando eroine della vita, ognuna nel proprio ambiente, nella propria comunità.

Le voci che arrivano da Soncino sono potenti e contemporanee. C’è Fanny Solomian che aveva lavorato come fisioterapista e che poi il ministero polacco dell’Educazione aveva inviata in Svezia per proseguire gli studi prima della guerra. Tornata in patria, a Pinsk, scampa al massacro del suo paese d’origine e diventa protagonista della resistenza: fa l’infermiera in una sala operatoria improvvisata ma, nonostante la sua dedizione, il suo lavoro, avverte che i colleghi la trattano con diffidenza in quanto donna. Ma resiste, aiuta, cura fino alla fine della guerra quando emigra in Israele con il marito.

O c’è la storia di Miriam Litman, così carica di amore e dolore insieme. Miriam evita la deportazione subita dagli abitanti ebrei del suo villaggio d’origine, Pustelnik, ma poi, arrestata anche lei a Varsavia, viene deportata ad Auschwitz dove incontra Leon Libak Krycberg. Leon fa parte del Sonderkommando cioè di quel gruppo di prigionieri selezionati dai nazisti per lavorare nei crematori e riesce, pur in modo illegale, a dare a Miriam abiti, scarpe e cibo. Le dona perfino un semplice anello con un cuore e i loro numeri di matricola (osservatela bene la foto di quell’anello). A guerra finita, Leon e Miriam si incontrano ancora in un campo di raccolta per profughi, ma Miriam non accetta la proposta di matrimonio di Leon. La guerra è finalmente alle spalle, evaporano le speranze di Leon ma quell’anello ci dice quanto, anche nella disperazione, sia luce avere occhi che brillano e cercano l’amore.

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